COME SALVARE LA GRANDE OPERA ITALIA

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In termini meramente economici si potrebbe sostenere che la stessa natura dei luoghi, il paesaggio, il patrimonio culturale e artistico, le abilità  ancora diffuse nelle popolazioni costituiscono la materia prima e la risorsa che sono proprie e intrinseche al paese. Il loro utilizzo a tutti i livelli, da quello delle abilità  artigiane capaci di intervenire sul patrimonio paesistico, a quelle culturali e scientifiche che possono sostenere le innovazioni tecnologiche appropriate al potenziamento del patrimonio stesso, alle tecniche ecologiche di intervento, alle opportunità  di sperimentazione e propagazione di differenti modalità  di produzione in agricoltura, nei servizi e nell’istruzione, costituisce in sé un’opportunità  irripetibile e concreta per una Grande Opera Italia. Che richiede investimenti e attenzioni pubbliche significativi, ma che offre rendimenti sicuri e di lungo respiro.
Per capire la straordinaria valenza di questo tipo di opera di reale interesse pubblico, basta fare il confronto con le “grandi opere pubbliche” generalmente prese in considerazione e finanziate, esaminandole da diversi punti di vista.
La grande opera infrastrutturale: si tratta in genere di interventi localizzati, ma di grande impatto, che non tengono conto a sufficienza dei luoghi che investono alterandoli profondamente, e ancor meno delle conseguenze. Spesso sono privi delle valutazioni obbligatorie a livello europeo e generalmente invocano il superamento delle verifiche e degli accertamenti, in realtà  tanto più necessari perché non sono stati effettuati quando di dovere. Le finalità  sono date per scontate, ma gli studi delle alternative possibili raramente vengono mai effettuati.
Nella maggior parte dei casi le grandi opere si risolvono in operazioni di distruzione di risorse ambientali, culturali ed economiche, con grave danno delle popolazioni insediate.
Per grande opera di risanamento e di promozione del territorio si intende invece un intervento vasto, multifunzionale e multisettoriale, che si esercita o su strutture ecologiche complesse (fiumi, bacini idrici, catene montuose, ecc.) o su un’area antropica di pregio e/o problematica (aree metropolitane). Aspetti ambientali e socioeconomici sono considerati in un’unica dimensione di riqualificazione integrata: le opere di intervento sono diffuse e mirano, dopo una prima fase di avvio, ad una rinascita autonoma.
La grande opera infrastrutturale è esposta ad ogni tipo di infiltrazione, anche mafiosa, e quasi sempre generatrice di speculazioni a danno dello Stato, a maggior ragione quando si usano procedure tipo Project financing o moltiplicazione dei budget (tutte regolari, per carità !); comporta il subappalto, il lavoro standardizzato, senza alcuna ricaduta economica sul territorio, e un’attività  occupazionale che si esaurisce un se stessa.
L’opera di risanamento territoriale è invece distribuita e diffusa sul territorio, realizzabile anche per gradi e per processi di intervento monitorati nel tempo; comporta un coinvolgimento di lavoro differenziato, che coinvolge i saperi locali, e che è destinato a riprodursi e ad evolvere nel tempo, producendo attività  ed economie durevoli, oltreché un numero di persone impiegate di gran lunga superiore all’altro modello.
Questi due diversi modi di intervenire sulla realtà , sia ambientale che socioeconomica, si riflettono anche su altri aspetti della manovra di Monti. Ad esempio sulle alienazioni del patrimonio pubblico: una cosa è vendere per fare cassa, altra cosa è usare il vasto e straordinario patrimonio pubblico italiano all’interno della grande opera pubblica e collettiva che proponiamo al fine della promozione del patrimonio stesso e per le attività  di risanamento di un territorio compromesso, quali ad esempio le rive dei fiumi o le coste marine. Gli utili di questa soluzione, anche economici, in una logica sequenza temporale, sono evidenti.
Ma, come si è detto, tutto ciò consentirebbe inoltre di attivare una crescita anche nei comportamenti delle comunità  italiane nei confronti del riconoscimento del territorio e del patrimonio come beni comuni della popolazione; le comunità  potrebbero così affrontare e risolvere correttamente la questione del ciclo delle acque dando un esito positivo ai referendum del 2011, fino a comprendere molteplici forme di una relazione ritrovata tra popolazione e proprio insediamento, che costituisce la garanzia più sicura per il rinnovamento nel tempo delle risorse divenute appunto bene comune, e per lo sviluppo di economie su una materia prima irripetibile e legata alla vita di ognuno.
Infine, è interessante, e importante, considerare che l’opera infrastrutturale non è partecipata se non in termini di ricerca del consenso, è molto rigida ed autoritaria; la grande opera pubblica e collettiva si presta invece ad una democrazia partecipata, sia di livello intercomunale, magari anche con organismi a suffragio diretto – lontani dalla logica dei carrozzoni (Ato e simili, per rifiuti, energia ecc.) e ancora di più dalla logica delle Agenzie e delle Aziende territoriali pubbliche e private – per promuovere forme di democrazia attiva basata su Patti partecipativi condivisi, costruiti sulla base di programmi per la promozione del territorio, ormai riconosciuto consapevolmente ed operativamente come Bene Comune. Questa sì che sarebbe la vera riforma strutturale che, avviatasi in alcune realtà  peninsulari, porrebbe l’Italia all’avanguardia dei paesi in via di liberazione dalla crisi neoliberista .
*** Giorgio Pizzaiolo, Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello, Antonio Fiorentino, Maurizio De Zordo, Tiziano Cardosi, Alma Raffi, Franca Gianoni, Francesco D’Angelo, Rita Mencarelli, Giandomenico Savi del Gruppo urbanistica perUnaltracittà , lista di cittadinanza Firenze


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