Di Vaio: “La mia nuova vita dopo anni di droga e carcere”

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ROMA Gaetano Di Vaio aveva trent’anni quando nel 1998 lasciò il carcere di Poggioreale, dopo nove anni scontati per spaccio di droga. Da “avanzo di galera”, come dice lui, è diventato attore, produttore, scrittore, il suo romanzo autobiografico, Mala vita, uscirà  a settembre con Einaudi: come Sasà  Striano, il Bruto del film dei Taviani Cesare deve morire, o Salvatore Ruocco, il pugile utilizzato dalla camorra, è riuscito a spezzare un destino di criminalità  e a reinventarsi una vita, che racconta con la sua voce roca, con il suo linguaggio ricco e colorito, con spirito leggero tutto napoletano.

Chi o che cosa l’hanno spinta a cambiare? «Incontri e letture. Il primo incontro è stato a Poggioreale, l’Alcatraz napoletano, stavamo in cella in 20, 25, facevamo tutti un gran casino, ma c’era uno che non parlava mai, Raffaele Di Gennaro, un commerciante finito dentro per errore, poi riconosciuto innocente. Oh, m’à  fatta ‘na capa tanta, statte ‘nu poco zitto. Così è cominciato il dialogo, la mia salvezza. Mi ha fatto ragionare sulla violenza del carcere, sulla necessità  di lottare per la nostra dignità , mi ha insegnato a scrivere e a prendere la licenza media, ad amare la lettura e l’arte. Allora per me l’arte erano Mario Merola, Nino D’Angelo, i neomelodici. Io mi sentivo un fallito, avevo 27 anni, una moglie e un bambino senza soldi, lui mi ha dato la speranza». Le sue prime letture? « Figli di un Bronx minore e La vita posdatata di Peppe Lanzetta, un’illuminazione. Gli ho scritto, per due anni gli ho mandato lettere da Poggiorale, non mi rispondeva. Quando sono uscito dal carcere continuavo a lasciargli lettere. Dopo un anno che ero fuori, Lanzetta per la prima volta mi chiama, mi fa una telefonata mentre sto portando mia moglie in ospedale a partorire il secondo bambino, che si chiama Francesco e adesso ha 11 anni. “Ma tu li hai letti tutti i libri miei?”, mi chiede. Sì, m’aggio letto tutti i libri tuoi. E mi dice di andare in scena con lui nello spettacolo teatrale. Io non sapevo se essere più contento del bambino che nasceva o della telefonata. Erano due cose importanti, Francesco era il figlio della vita, il primo figlio, Enrico, era nato che ero tossicodipendente, facevo una vita bruttissima, avevo 22 anni, ero una larva umana, non avevo un futuro davanti, pensavo che sarei finito nella camorra o morto per la droga, o con l’ergastolo addosso, mentre Francesco nasce quando ero sicuro che la mia vita era definitivamente cambiata». Com’era cominciata la sua “vita bruttissima”? «Avevo 12-13 anni, le prime incriminazioni erano per furti nelle auto, mi mettevano dentro le case cosiddette di rieducazione, carceri vere e proprie».

La droga? «Quando è nata Scampia dove prima c’erano le pecore, hanno fatto questi palazzoni enormi, il quartiere è stato invaso, in mezzo alla piazza si spacciava l’ira di Dio. Ho cominciato con gli amici di quartiere che mi dicevano Damme nu occhio e mi lasciavano a guardia della droga, finché ho chiesto di venderla anch’io, in proprio».

Attore, regista, e produttore con la sua casa “I figli del Bronx”, è attivissimo nel cinema… «Adesso stiamo producendo Take five, il secondo film di Guido Lombardi dopo Là -bas, collaboriamo con Ermanno Olmi per il documentario che sta girando, prepariamo il secondo film di Tony D’Angelo. Glielo devo, è lui che mi ha fatto conoscere Abel Ferrara. Con Ferrara abbiamo girato la parte documentaria del suo film sul nonno, ambientata tra Sarno, il suo paese d’origine, e New York. Appena Abel avrà  finito in Francia la storia-scandalo ispirata a Strauss-Khan con Depardieu, gireremo il resto».


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