Il pensiero anziano

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Lo scorso lunedì, alle sette del mattino in punto, il sociologo anglo-polacco ZygmuntBauman faceva colazione in una sala di un albergo di Pistoia. Appariva in gran forma, canticchiava persino, a bocca chiusa, prima di attaccare yogurt e caffè. Pochi giorni prima aveva parlato di «Decodificare il mondo in cui viviamo» al Festival Biblico di Vicenza; poi aveva risposto alla domanda «La solidarietà  ha un futuro?» agli antropologici Dialoghi sull’uomo pistoiesi (pubblico osannante) e quindi, sempre a Pistoia, ha tenuto per un’ora intera una conferenza stampa, davanti a (tre) giornalisti di testate locali. Bauman è nato nel 1925. Quando non gira per il mondo abita a Leeds, quando viaggia, vola con Ryanair, chiedendo solo il benefit dell’imbarco prioritario. Tuttora, a 87 anni, pubblica un paio di libri all’anno. E non si tratta di minestre riscaldate.
«Vecchio, io?». A chiederselo non era Travis Bickle allo specchio, ma Primo Levi, che, a differenza del famoso taxi driver, si affrettava a rispondere e anzi ad ammettere: «In assoluto, sì: lo dicono l’anagrafe, la presbiopia, le chiome grigie, i figli ormai adulti…». Era il 1982, e di anni Levi ne aveva sessantatré, età  che oggi viene considerata “terza” solo da direttori del personale in uzzolo di prepensionamenti. Per chiunque altro, si è “nel pieno”, e anzi oggi può capitare che un ottantenne faccia paternalistici buffetti a un sessantenne, mentre i quarantenni sono ancora alla gavetta e i trentenni al gavettone. 
In sartoria i laticlavi sarebbero pronti da tempo, ma “per ora” gli ottantenni non ne vogliono sapere. Il regista francese Alain Resnais (89 anni) era in concorso a Cannes, dove ha vinto il film di Michael Haneke (70), sull’Amour fra due ottantenni. Paolo (81) e Vittorio (83) Taviani quest’anno hanno vinto Orso d’Oro e David: come miglior film e come migliori registi, non alla carriera. Longevità  prettamente cinematografica, come per il portoghese Manoel de Oliveira (104) che ha diretto il suo ultimo film solo tre anni fa? No, perché il discorso riguarda anche il diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel (95), che tre anni fa ha esortato il mondo a indignarsi con un celebre pamphlet; o anche un amico e coautore di Hessel, il sociologo francese Edgar Morin (91). O il linguista e polemista americano Noam Chomsky (84) e i critici Harold Bloom (82) e George Steiner (83). Per non parlare di Oscar Niemeyer (105), che l’anno scorso ha inaugurato il centro culturale asturiano a lui intitolato e da lui progettato.
No, non è (o non è più) un mondo per gerontofobi. Persino il babau del Grande Vecchio (Bettino Craxi lo inventò per designare burattinai, gestori e manovratori di manine, manone, manopole, manipoli) è poi diventato Buono, e lo abbiamo mandato al Quirinale con Sandro Pertini, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, in una nazionale della terza e quarta età , vigile e carismatica (che ha avuto in Francesco Cossiga il suo Chinaglia). 
Ogni discorso generazionale ha certo un fondo irriducibilmente idiota. Ma forse può fare eccezione il discorso che riguarda proprio la generazione degli odierni settantenni e ottantenni. È la più fortunata della storia post-edenica dell’umanità : troppo giovane per la Seconda guerra mondiale, intermedia nel conflitto generazionale del Sessantotto, troppo vecchia (e con diritti acquisitissimi) per subire le conseguenze delle successive crisi, è la generazione che si è presentata invece puntuale alla Dolce Vita, al Boom, alla liberazione sessuale (pre-Aids), al godimento no problem di ogni risorsa naturale, ambientale, economica. Al momento giusto, le hanno persino inventato il Viagra. 
I fortunati vegliardi sembrano avvantaggiati anche nell’industria culturale. Sono sul mercato da più tempo e hanno un pubblico ben fidelizzato, essendo il mass-marketing basato su ripetizioni di stilemi e tormentoni. Ma ci deve essere dell’altro, una diversa disinvoltura. I più giovani, al loro confronto, spesso sembrano artisti a partita Iva o a progetto. Per intenderci basterà  rimandare agli interventi del compianto Carlo Fruttero a Che tempo che fa. Sarà  solo saggezza acquisita? Ricchezza del repertorio aneddotico? Penultime chance per testimonianze di prima mano su fatti remoti? O la squisita crudeltà  del superstite, che non ha passato a caso né invano la feroce selezione del tempo?
Per demografia ci sono proprio più ottantenni in condizioni fisiche e cognitive ottimali. Tra gli artisti, Christopher Plummer (82) vince il primo Oscar, battendo Max von Sydow (83). Nel pubblico, settantenni e ottantenni hanno molto tempo libero, non hanno più mutui da pagare e (novità  recentissima) non sono più tanto abitudinari e inclini ad accontentarsi di poco, come una volta. Costituiscono quindi un grande, gioioso target consumista a cui strizza l’occhio innanzitutto la tv. Maria De Filippi dedica parte di Uomini e donne a “tronisti” anziani, e vanno in onda serie tv come la britannica Downtown Abbey protagonista Maggie Smith (78) o l’americana Brothers & Sisters (tra i protagonisti, un omosessuale settantenne, che incontra il suo ex, interpretato da Richard Chamberlain, 76). Il cinema offre storie di coppie o combriccole mature (Another Year, di Mike Leigh; Marigold Hotel, di John Madden; l’atteso Hope Springs, con Meryl Streep). La letteratura, dominata in Italia dai bestseller senza età  di Andrea Camilleri (87), inventa l’on the road degli ottuagenari con In viaggio contromano di Michael Zadoorian (Marcos y Marcos) e offre titoli come Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve (Bompiani) di Jonas Jonasson. Un senilismo che giova anche ai vecchietti di provincia dei fortunati gialli di Marco Malvaldi (Sellerio) o a quelli di periferia del Marco Presta di Un calcio in bocca fa miracoli (Einaudi).
L’invecchiamento demografico e il marketing non spiegano, però, tutto. Come Malcom Gladwell ha sottolineato (in Avventure nella mente degli altri, Mondadori) per noi il genio è il bambino Mozart ma spesso la realtà  ci presenta casi di anciens prodiges. È stato proprio un economista David Galenson (University of Chicago) che con studi come Old masters and young geniuses ha distinto Pablo Picasso da Paul Cézanne: l’artista che sin da ragazzino trova senza cercare e il genio tardivo, sperimentatore e perfezionista, che passa decenni a cercare, prima di trovare. 
L’attuale fioritura di un’arte e di un pensiero anziani pare però legata più strettamente al tema contemporaneo dell’assenza dei padri, che ci porta a dare massima fiducia ai nonni. Il loro pensiero ci pare più radicale, la loro voce ci pare più ferma, la loro identità  ci pare meno compromessa, meno strizzata dai perimetri dei format, meno modellata dalle convenienze economiche, sociali e editoriali. Nei maggiori, non vediamo pose, conformismo o anticonformismo, ma adesione spontanea a moduli espressivi già  sperimentati o nuovi, a seconda delle occasioni, senza intenzione calcolata. Questa è la vera novità : fingiamo di interessarci alla loro saggezza, ma quello che ci affascina è che per loro il percorso non coincide con una carriera. I vecchi ci dicono che i veri limiti con cui siamo a confronto sono dati nel linguaggio, nel corpo, nell’Altro e nella morte e che del resto ci si potrebbe anche preoccupare di meno. Saggezza o non saggezza, con l’ascoltarli ci costruiamo, con gratitudine, l’immagine di una libertà  ancora possibile.


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