Gli acquerelli di Montale tra i quadri di De Pisis

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Filippo De Pisis, nome de plume di Filippo Tibertelli, fu pittore-poeta, così come Eugenio Montale fu poeta-pittore: l’uno ferrarese, l’altro ligure, erano nati entrambi nel 1896. Si conobbero nel ’19 a Genova, s’incontrarono spesso a Cortina e il loro sodalizio s’interruppe solo nel 1956 quando Pippo prematuramente muore. Vicini e diversissimi hanno intessuto la loro vita di questa duplice, versatile e speculare pratica: la pittura fu per Montale a partire dal ’39 giocata, in esordio, quasi per scherzo e con la mano sinistra, con ritratti di amici. Col tempo la sua vocazione seconda si fa più convinta e l’influenza depisisiana si sente nei paesaggi e nelle atmosfere marine che già  erano parte di molte poesie contenute in Ossi di seppia, che l’amico ammirò moltissimo. De Pisis visse a lungo a Parigi dal 1925 al ’39, allo scoppio della guerra tornò in Italia: il legame con l’impressionismo è intenso nella sua pittura, si veda Dalie e gladioli (1933) così volatile e leggero nei tocchi, e lascia segni durevoli nei suoi testi autobiografici come in Vert-Vert. Gli uccelli, le nature morte, i pesci, le conchiglie sulla battigia, i fiori, le foglie che vengono dall’Erbario che il ferrarese aveva raccolto tra il 1907 e il ’17. Sono queste forme parte di un alfabeto elementare scandito con tratti di colore lievi e a volte appena percettibili, “a zampa di gallina” dirà  Montale, come in certi fogli giapponesi e cinesi: si veda La pianta (1931) o il Paravento delle tre stagioni (1941) Circa cinquanta di pezzi di De Pisis, e un’ottantina di acquerelli, incisioni, disegni di Montale con documenti vari si possono passare in rassegna nella mostra che non esito a giudicare bellissima De Pisis e Montale. Le occasioni tra poesia e pittura a cura di Paolo Campiglio, Museo d’Arte di Mendrisio, fino al 26 agosto. Rassegna condotta con maestria per l’intreccio sentito tra i due, e nella stessa opera di entrambi, per l’inversione speculare dei ruoli. La professionalità  di De Pisis è evidente, così come il procedere incerto di Montale, che segna i momenti più interessanti e ispirati quando i suoi fogli diventano quasi a-iconici. Impara col tempo a usare i pastelli in paesaggi marini e nature morte, fogli scarnificati a volte quasi monocromi come nella Marina (1954) o in Pineta e Tramonto sul mare (entrambe 1970). Che in Montale la pittura sia sopravanzata dalla poesia è un dato di fatto ed essa, la pittura, va letta come specchio di un lento evolversi della scrittura che s’addensa di un’aggettivazione “pittorica” che conferisce al tono della lingua un senso più intenso e vibrante. Questo scompenso tra poesia e pittura non si riconosce in De Pisis, dove le ricerche vanno su binari paralleli: anche se Filippo molto si dolse per la stroncatura dell’amico Giovanni Comisso alle sue Poesie, ma lo ricambiò Eusebio-Eugenio con una recensione sentita e sincera. Alla poesia Alla maniera di de Pisis di Montale – «Una botta di stocco nel zig zag / del beccaccino – / si librano piume su uno scrìmolo / Poi discendendo là , fra sgorbiature / di rami al freddo balsamo del fiume – De Pisis replicò inviando in dono Il beccaccino (1932), una delle tele tra le più felici del ferrarese, sapiente per la ricchezza della composizione, in cui si sente l’eco di Morandi. Di concordia dice felicemente Gianni Venturi che unì questi protagonisti «di una stagione inarrivabile nel secolo breve tra scrittura e pittura». E proprio in questa direzione mi paiono assai pertinenti l’intreccio, che Arbasino e Campiglio, hanno ricostruito della trama sotterranea di rapporti con Solmi, Palazzeschi, Penna, Savinio e Gadda, ma duole che ci si sia dimenticati proprio di Lalla Romano pittrice-scrittrice che, senza esitazioni, indicò come suo referente privilegiato proprio De Pisis, anche per il comune legame con Chardin e gli impressionisti francesi.


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