LA PARTITA DI MATTEO

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Si tratta però di una battaglia condotta a colpi di clava. Il conflitto ha assunto toni senza precedenti. Le accuse reciproche per la prima volta sono state esplicite, franche. Senza quel sottile velo di ipocrisia che spesso accompagna le scelte traumatiche della politica.

Il segretario e il premier si sono attaccati anche correndo il rischio di compromettere la credibilità del loro partito. Questo sarà il giorno della staffetta. Il leader democratico non lo chiederà, ma è nei fatti. L’addio di Letta corrisponde all’ascesa di Renzi.
Il presidente del Consiglio ha ormai messo nel conto l’ipotesi di dimettersi. Una decisione che dopo una giornata di trattative appare inevitabile. Letta si è improvvisamente ritrovato solo. La mossa di presentare in extremis un nuovo programma di governo ha marcato con maggiore evidenza la sua solitudine. Non solo il Pd non ha raccolto quel programma, ma nemmeno gli alleati — quelli che formano la maggioranza — si sono spesi per far crescere l’autorevolezza e la praticabilità delle nuove proposte. Basti considerare la freddezza con cui l’Ncd di Alfano ha accolto l’iniziativa di Palazzo Chigi. La verità è che il vicepresidente del consiglio considera troppo debole questa premiership e soprattutto non in grado di allontanare lo spettro del voto anticipato. Un giudizio che ormai contraddistingue anche il Pd. Persino la minoranza interna. Non a caso la possibilità di passare la mano, Letta l’ha valutata dopo aver capito che la direzione avrebbe votato un ordine del giorno di sfiducia. Un soluzione che avrebbe esposto il centrosinistra a un durissimo colpo. A una manifesta diatriba intestina, incomprensibile anche per i cittadini più distratti. Senza contare che la vera e unica arma finale sarebbe stata quella della sfiducia in Parlamento. E anche i gruppi parlamentari si sono ormai dichiarati a favore di Renzi.
Non è la prima volta che il capo del governo viene di fatto «sfiduciato» dal suo partito. Nelle liturgie della prima Repubblica è accaduto ripetutamente. Nella Seconda è successo almeno un paio di volte e sempre nel campo del centrosinistra. Ma mai il partito del presidente del Consiglio ha approvato un documento ufficiale per liquidare il governo. Non capitava perché anche il soggetto perdente faceva un passo indietro per salvaguardare l’immagine del proprio movimento. O — più frequentemente — anche per tutelare il diritto ad avere una seconda chance. Ritirarsi senza squassare per poter costruire la rivincita. O per poter essere disponibili in futuro ad un qualsiasi ruolo che richiede senso di responsabilità. Se adesso accadesse il contrario, sarebbe un primo caso senza precedenti.
Ma c’è un fattore nello scontro tra Renzi e Letta che è stato determinante: il Quirinale. Il capo del governo in questa ultima settimana ha perso l’appoggio del presidente della Repubblica. Quell’ombrello protettivo è venuto meno nel momento in cui la scelta definitiva è stata rimessa nelle mani del partito democratico — guidato dalla maggioranza renziana — e contemporaneamente è stata esclusa la strada delle elezioni anticipate. Un cul de sac che impedisce al presidente del Consiglio qualsiasi via d’uscita non cruenta.
Eppure il tentativo di danneggiarsi reciprocamente resta la vera macchia di queste settimane. Nei giorni scorsi si è spesso fatto riferimento alla staffetta tra Romano Prodi e Massimo D’Alema. E sempre si sono chiamate in causa le «impronte digitali» lasciate dal successore nell’organizzare l’operazione. In questo caso, però, il pericolo di lasciare una traccia è stato quasi ignorato. È come se ad un certo punto tutti avessero perso ogni remora. Entrando nella Terza Repubblica ancora in gestazione, i protagonisti hanno pensato di poter fare a meno delle vecchie abitudini rivolgendosi ai propri elettori con uno stile affatto diverso. Ma solo nei prossimi mesi si capirà se anche gli italiani saranno entrati nella Terza repubblica e avranno apprezzato i nuovi metodi. E solo se con il primo governo Renzi ci sarà davvero un cambio di passo che tutti si aspettano. Quello del segretario pd sarebbe il terzo esecutivo consecutivo non nato dalle urne. Un altro insuccesso assesterebbe l’ennesimo colpo al Paese e alla credibilità della politica e in modo particolare del centrosinistra.


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