L’Italia alla riscoperta dell’Africa (in otto tappe)

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Con la nascita dell’euro, l’aggancio all’Europa è fuori discussione. Ciò permette di rivolgere, senza rischi, l’attenzione a Sud, alla crescita impetuosa dei Paesi emergenti. Se n’è accorto il governo italiano, almeno in teoria, che oggi presenterà a Roma il rapporto sulla politica dell’Italia verso l’Africa, commissionato dal ministero degli Esteri all’Ispi, l’Istituto per la politica internazionale.
L’Africa perché è vicina e quindi un partner economico quasi naturale; ma anche perché molti Paesi africani hanno ritmi di sviluppo elevati, tanto che nei prossimi anni saranno probabilmente quelli a maggiore tasso di crescita del pianeta. Per l’Italia un’opportunità da cogliere, a cominciare dall’innovare il vecchio paradigma per il quale guardare a Sud impedisce di guardare a Nord: nella globalizzazione, l’arco visuale dev’essere a 360 gradi.
Il voluminoso rapporto dell’Ispi (150 pagine) si focalizza sui Paesi dell’Africa subsahariana, sostanzialmente quelli a Sud del deserto del Sahara. A partire dalla metà degli anni Novanta, questa regione ha avuto tassi medi di crescita economica sempre maggiori, un po’ inferiori a quelli dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India, Cina) ma dal 2000 sempre superiori a quelli dei Paesi avanzati. E nel 2012 ha superato anche i Bric (4,2% rispetto al 3,8%): secondo il Fondo monetario internazionale, la crescita è stata del 5% nel 2013 e sarà del 6% quest’anno. Un boom in parte fondato sullo sfruttamento delle risorse naturali, ma non solo: nel periodo 1995-2010, 8 dei 12 Paesi che nella regione sono cresciuti di più non erano ricchi di materie prime. L’inflazione, sotto al 10%, è in calo dal 2000 e uno dei maggiori problemi dei decenni scorsi, il debito verso l’estero, in vent’anni si è ridotto da una quota attorno al 65% all’attuale 27%.
Soprattutto, sono migliorate le condizioni di vita. Tra il 1990 e il 2011 la spesa per consumi è aumentata di cinque volte. Sessanta persone su cento hanno oggi un telefono cellulare e quasi il 20% della popolazione ha qualche forma di collegamento Internet. La mortalità infantile (sotto i cinque anni) è scesa da 180 morti ogni mille nati a poco più di cento, ancora troppo rispetto ai 54 della media mondiale, ma in netta diminuzione. La popolazione sotto il livello di povertà estrema, meno di 1,25 dollari al giorno, è calata dal 60% di inizio anni Novanta al 48% di oggi. L’istruzione e la sanità migliorano. L’urbanizzazione (un fattore potente di crescita e di miglioramento sociale e politico) è ancora sotto al 40% della popolazione totale ma in crescita netta.
Il mondo si è accorto del cambiamento e l’ha accompagnato. Gli investimenti diretti dall’estero nell’Africa subsahariana erano lo 0,6% di quelli mondiali nel 1990, negli ultimi anni variano tra il 2,5 e il 3,2%. Vent’anni fa, su cento dollari che arrivavano nella regione, cinque erano di investimenti, 95 di aiuti; oggi il rapporto è quasi di uno a uno. L’Africa è insomma in movimento.
Il rapporto dell’Ispi sottolinea anche i limiti del continente: povertà da superare, educazione da incentivare, sanità da migliorare, infrastrutture da costruire. E quadro politico spesso problematico: gli unici Stati considerati «relativamente stabili» sono Sudafrica, Lesotho, Botswana, Namibia, Gabon, Benin e Ghana; Somalia, Sudan, Sud Sudan e Congo D.R. sono considerati «Stati falliti»; gli altri sono «deboli» oppure «a rischio».
In questa cornice, il rapporto commissionato dal ministero degli Esteri individua otto Paesi che — per crescita futura, caratteristiche istituzionali e politiche, dinamiche demografiche, amento della classe media — sono da considerare obiettivi di particolare interesse per l’Italia: Angola, Etiopia, Ghana, Kenya, Mozambico, Nigeria, Senegal e Sudafrica. Con alcuni altri — ad esempio Camerun, Uganda, Zambia — comunque attraenti. L’Italia è però in ritardo netto rispetto ad altri Paesi europei — tutti i maggiori ma anche Olanda e Belgio —, rispetto agli Stati Uniti e anche rispetto a emergenti come Cina, India, Turchia: vi ha effettuato meno investimenti, ha interscambio commerciale inferiore, l’aiuto allo sviluppo è omeopatico, abbiamo poche rappresentanze diplomatiche e culturali, organizziamo poche iniziative di partnership.
Il rapporto propone dunque un programma italiano di investimenti pubblico-privati in progetti africani; il rafforzamento delle ambasciate e degli uffici Ice nella regione; rapporti istituzionali più profondi e costanti con i singoli Paesi e con l’Unione africana; campagne di informazione sull’economia italiana; possibilità di esportazione di intere filiere di produzione italiana; sostegno finanziario; cooperazione in fatto di migrazione; scambi culturali; la valorizzazione della Conferenza Italia-Africa che il ministero degli Esteri organizzerà il prossimo autunno e dovrebbe diventare periodica (la Francia ne ha una dal 1973). E l’idea di restare europei ma guardare a Sud.


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