L’Ilva è invecchiata male

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Dell’Ilva di Taranto si è par­lato molto negli ultimi tempi e, giu­sta­mente, si dovrà par­lare ancora a lungo, men­tre, a pro­po­sito di acciaio, di Bagnoli e di Cor­ni­gliano non si parla più. Della Richard Ginori, dei can­tieri di Mon­fal­cone e, tutto som­mato, della Fiat di Melfi si è par­lato poco. Invece le vite in tutti quei luo­ghi di lavoro e di vita, le lotte, le sog­get­ti­vità e memo­rie ope­raie sono al cen­tro del numero dop­pio appena uscito (nn. 22–23, 232 pp., 15 euro) de «Il de Mar­tino», la rivi­sta del bene­me­rito Isti­tuto omo­nimo. E se nelle sue pagine si parla dell’Ilva, per esem­pio, met­tendo insieme con grande effi­ca­cia cro­ni­sto­ria azien­dale e discorso ope­raio su di sé, sul lavoro e sulla società cir­co­stante, si rac­conta anche, però, della prassi delle burle in fab­brica, dei mina­tori e dei canti di pro­te­sta sardi, delle indu­strie metal­mec­ca­ni­che ita­liane in Cina.

Le scrit­ture, i saggi pre­senti nella rivi­sta sono diversi tra loro per impo­sta­zione e per effi­ca­cia. Alcuni tratti però sono suf­fi­cien­te­mente comuni da per­met­tere qual­che gene­ra­liz­za­zione. Anzi­tutto, il ben­ve­nuto a un lavoro che tema­tiz­zando il pas­sag­gio «da ope­rai a gente» avve­nuto negli ultimi decenni, si col­loca nel pro­ble­ma­tico con­te­sto socio-culturale in cui ci tro­viamo. Ed è un discorso che cerca di ripren­dere e rian­no­dare i fili di una vicenda col­let­tiva in cui le cesure tra pre­sente e memo­ria sono esplo­rate, non taciute.

Le mol­te­plici violazioni

Il lavoro è serio, anche se, come sem­pre nelle sto­rie che i lavo­ra­tori rac­con­tano su di sé e sul pro­prio lavoro, nel dramma c’è sem­pre spa­zio anche per la com­me­dia. Il mosaico messo insieme dai tre cura­tori Cesare Ber­mani, Filippo Colom­bara e Anto­nella De Palma pesca nelle ricer­che mono­gra­fi­che che loro stessi e altri nove stu­diosi hanno con­dotto negli ultimi anni. In tutti i saggi l’impiego degli stru­menti della sto­ria orale – essen­zial­mente l’indagine sul campo e i rac­conti in prima per­sona di lavo­ra­tori o ex lavo­ra­tori che par­lano indi­vi­dual­mente o in gruppo – si intrec­cia con il ricorso alle fonti scritte, pri­ma­rie e secondarie.

Vor­remmo pun­tare bre­ve­mente l’attenzione su tre con­tri­buti, e quindi su tre nodi tema­tici di rilievo, ben sapendo di fare torto agli altri. Il primo è quello di Gianni Alioti «sulle indu­strie metal­mec­ca­ni­che cinesi a con­du­zione ita­liana». il sag­gio di Alioti aggiunge qual­cosa a quello che sap­piamo della Cina. Sin­te­tizza i risul­tati di una ricerca pre­sen­tata al pub­blico ita­liano nel 2011 dalla Fim-Cisl e dall’Istituto Sin­da­cale di Coo­pe­ra­zione allo Svi­luppo, e for­ni­sce dati impor­tanti sulla pre­senza ita­liana – Piag­gio e Candy, in par­ti­co­lare – nella pro­vin­cia cinese di Guang­dong. Le inter­vi­ste a lavo­ra­tori cinesi per­met­tono di con­clu­dere che anche nelle aziende «ita­liane» non ven­gono rispet­tati «i prin­cìpi degli stan­dard inter­na­zio­nali del lavoro, né le linee guida dell’Ocse sulle imprese mul­ti­na­zio­nali». Ma non si rimane nel gene­rico: molte delle imprese stu­diate «garan­ti­scono salari e wel­fare ben infe­riori agli stan­dard minimi, impon­gono ecces­sivi orari di lavoro, vio­lano la libertà di asso­cia­zione (sin­da­cale), di con­trat­ta­zione col­let­tiva, e per­sino le norme esi­stenti in mate­ria di salute e sicu­rezza del lavoro».

Nello spie­gare gli inve­sti­menti della Piag­gio in Cina, Roberto Cola­ninno aveva detto: «Noi non abbiamo delo­ca­liz­zato, siamo andati a pro­durre per mer­cati che non avremmo mai potuto rag­giun­gere pro­du­cendo in Ita­lia o in Europa». Va bene. Que­sta, diciamo, è la glo­ba­liz­za­zione «buona». E con­ti­nuava: «La sfida è orga­niz­za­tiva, le imprese devono dotarsi di una cul­tura che con­senta loro di affron­tare un mer­cato glo­bale». Molto meno bene, natu­ral­mente, visto che in tale «cul­tura» non si rispet­tano nep­pure le pur basse norme della legi­sla­zione locale. Infatti, i lavo­ra­tori Piag­gio rice­vono salari infe­riori al minimo di legge e gli straor­di­nari (obbli­ga­tori, non volon­tari come dovreb­bero essere) non sono pagati secondo le norme e por­tano le ore di lavoro set­ti­ma­nale a più di 60. Alla Candy fanno lo stesso, con la set­ti­mana lavo­ra­tiva che può anche essere di sette giorni su sette (invece che di sei su sette) con ora­rio pro­lun­gato e straor­di­nari sottopagati.

Il comando sulla mano­do­pera nel post-fordismo della glo­ba­liz­za­zione neo­li­be­ri­sta, in Cina, asso­mi­glia molto a quello del pre-fordismo. In quanto modello di orga­niz­za­zione pro­dut­tiva il for­di­smo non è spa­rito, coe­si­ste ovun­que con quanto è stato intro­dotto dagli anni del «toyo­ti­smo» a oggi. Il punto è che si intrec­cia sem­pre più – anche fuori della Cina – con i modelli di comando sociale dei tempi del pre-fordismo. All’affermarsi del modello pro­dut­tivo e sociale for­di­sta si era accom­pa­gnata una pra­tica di «com­pro­messo», come viene ricor­dato in Futuro inter­rotto (il sag­gio sulla Fiat di Melfi di Ful­via D’Aloisio), gra­zie al quale la pre­senza sin­da­cale e la con­trat­ta­zione erano rico­no­sciute, pro­dut­ti­vità e salari cre­sce­vano sostan­zial­mente di pari passo, l’occupazione era sta­bile. I lavo­ra­tori di Melfi ave­vano cre­duto che la fab­brica avrebbe por­tato lavoro, sala­rio, sta­bi­lità e benes­sere nella società lucana. Dopo poco più di dieci anni si sono ricre­duti. Le loro esi­stenze sono segnate da incer­tezza del lavoro e pre­ca­rietà, ina­spri­mento delle con­di­zioni di lavoro e infine una ricat­ta­bi­lità sociale che ine­vi­ta­bil­mente favo­ri­sce la sottomissione.

Tra Basi­li­cata e Puglia la distanza è poca, anche se Melfi è nata pochi anni fa come strut­tura di avan­guar­dia, men­tre l’Ilva è nata molti anni fa ed è invec­chiata male. La ricerca etno­gra­fica su Melfi di cui que­sto lavoro è un esem­pio, si inte­gra per­fet­ta­mente con l’altra sulle aziende cinesi e sull’ultima a cui mi sem­bra neces­sa­rio accen­nare, quella sull’Ilva e su Taranto.

Inti­mi­da­zioni violente

De Palma intrec­cia i fram­menti della sto­ria, diciamo così, isti­tu­zio­nale dello sta­bi­li­mento con i rac­conti dei lavo­ra­tori riguardo al loro luogo di lavoro. Si parla degli impianti e delle lavo­ra­zioni. Della vigi­lanza interna, che doveva con­trol­lare l’insubordinazione emer­gente e che, in qual­che caso, ha pro­dotto esa­spe­ra­zione: «All’acciaieria una sera hanno pic­chiato un fidu­cia­rio di Riva poi sono andati nello spo­glia­toio, si sono spo­gliati, hanno messo gli abiti civili e se ne sono andati a casa. Auto­ma­ti­ca­mente si sono licen­ziati. Però lo hanno man­dato all’ospedale». Del rap­porto con il quar­tiere Tam­buri, con­ti­guo allo sta­bi­li­mento: «Quando Riva ha comin­ciato ad avere pro­blemi con il Comi­tato di quar­tiere, per­ché di là poteva venire un peri­colo vero, poteva avere anche quarant’anni chi pre­sen­tava la domanda, ma se vede­vano che era dei Tam­buri, veniva assunto. Così tap­pava la bocca alla gente dei Tamburi».

Ma quando i danni alle per­sone e al quar­tiere hanno supe­rato le soglie della tol­le­ra­bi­lità, l’insieme di mobi­li­ta­zione, ricerca e infor­ma­zione, il rap­porto «pre­fe­ren­ziale» non è più bastato all’Ilva, come sap­piamo, a garan­tirsi la pace sociale. Anche in que­sto caso, i due pezzi che nel «de Mar­tino» entrano nel merito aggiun­gono qual­cosa alla sto­ria di oggi. E sia qui, sia, per esem­pio, nei saggi su Bagnoli, Cor­ni­gliano e la Richard Ginori – la sto­ria rico­struita e la memo­ria rac­con­tata aiu­tano a capire oggi quello che, bene o male, diven­terà sto­ria e memo­ria domani.


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