Quel divario tra ricchezza e povertà che minaccia crescita e coesione sociale

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Si tratta di un’ulteriore conferma di un problema generale di particolare gravità, quello della crescente disuguaglianza sia nelle diverse società nazionali, sia a livello dell’intero mondo. Per quanto riguarda il nostro Paese, anche l’analisi della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie nel 2012 mostra disuguaglianza in aumento: il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza netta (ovvero la somma delle attività reali, ossia immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi, titoli di Stato, azioni, eccetera), mentre l’indice Gini di concentrazione della ricchezza ha raggiunto il 64%, in aumento rispetto al 60,7% del 2008. Quanto alla situazione mondiale, basti citare il rapporto dell’Oxfam da poco discusso al World Economic Forum di Davos: lo 0,7% della popolazione mondiale (32 milioni di persone) possiede il 41% della ricchezza, il 7,7% una percentuale di ricchezza più o meno equivalente a quella del primo gruppo (42,3%), al 22,9% spetta il 13,7% della ricchezza, mentre alla grande maggioranza della popolazione (il 68,7%) rimane solo il 3% residuo.
Il processo di aumento delle disuguaglianze di ricchezza e reddito è generale. Si verifica nei grandi Paesi emergenti, sia in società già fortemente diseguali — come quella indiana, o brasiliana, o nigeriana — sia in società un tempo più egualitarie, come la cinese o l’indonesiana.
Ciò non sorprende: diverse ricerche comparative sui processi di modernizzazione mostrano un incremento delle disuguaglianze nelle prime fasi dello sviluppo economico e una successiva diminuzione in virtù di condizioni favorevoli, come l’industrializzazione, la crescita delle classi medie, lo sviluppo dell’istruzione, l’attuazione del welfare state e di politiche ridistributive.
Nel mondo contemporaneo in realtà le diseguaglianze stanno aumentando sensibilmente anche nei Paesi sviluppati. Dopo i «trent’anni gloriosi», dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, in cui una certa ridistribuzione dei redditi è stata favorita da politiche socio-economiche riassumibili nella formula Keynes at home and Smith abroad (Keynes a casa e Smith all’estero), ovvero politiche anticicliche e di welfare in sede domestica e liberalizzazione degli scambi in ambito internazionale, nei successivi tre-quattro decenni — quelli della globalizzazione — si sono sì create le condizioni per l’emersione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi e indiani ma, d’altro lato, sono fortemente aumentate le disuguaglianze nella grande maggioranza sia dei Paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo.
Una distribuzione fortemente disuguale del reddito e della ricchezza tra classi sociali, generi, generazioni, gruppi etnici minaccia la crescita economica, la coesione sociale e la stabilità politica dei Paesi in cui si verifica. In primo luogo, un aumento dei consumi da parte di una ristretta minoranza di super-ricchi, per quanto possano accrescere la loro propensione all’acquisto di beni e servizi, non riuscirà mai a compensare la contrazione della domanda determinata da un impoverimento relativo di una assai più ampia classe media, e impedirà il ciclo virtuoso rappresentato dall’aumento dei salari e della produttività con conseguente crescita della domanda di beni e servizi e ulteriore sviluppo della produzione. Inoltre, la percezione di disuguaglianze eccessive — sia all’interno di una stessa organizzazione ( in cui il reddito di alti dirigenti è centinaia di volte il salario medio dei dipendenti), sia tra tipi di lavoro (come nel caso della retribuzione di un medico ospedaliero, pari a una frazione di quella di un consulente finanziario o un consigliere regionale), sia tra gruppi che ricevono remunerazioni diverse per lo stesso tipo di lavoro (donne rispetto a uomini) — viola il fondamentale principio di equità nei rapporti sociali, incrina il patto di cittadinanza, ovvero la solidarietà e la collaborazione che rendono possibile la società, e mette a rischio la stessa tenuta democratica perché favorisce le oligarchie del denaro e del potere, il clientelismo e la corruzione. Come scrive Rousseau, infatti, in una società democratica «nessun cittadino deve essere tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi».


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