Il Jobs Act tra deregulation e flexsecurity

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In que­sti giorni si costrui­sce il nuovo governo Renzi. Il lavoro è annun­ciato come uno dei pila­stri del pro­gramma di governo da attuare nel mese di marzo. Renzi parte dal Jobs Act abboz­zato a gen­naio. Occorre ripren­dere le sue cri­ti­cità e veri­fi­care poi in che dire­zione si muo­verà il governo. Segnerà quel cam­bio di verso che il futuro primo mini­stro ha annun­ciato, oppure si appre­sta ad essere una tappa ulte­riore senza solu­zione di con­ti­nuità con il pas­sato?
Il Jobs Act potrebbe sem­pli­ce­mente inse­rirsi nel solco di una poli­tica neo-liberista che informa le attuali pro­po­ste di riforme strut­tu­rali. Sem­pli­fi­ca­zione, meno buro­cra­zia e meno regole potreb­bero sot­ten­dere una con­fer­mata volontà di dere­go­la­men­tare il mer­cato del lavoro, ren­den­dolo ancora più fles­si­bile, non solo in entrata, ma anche in uscita, ridu­cen­done le tutele.
Se que­sto fosse l’obiettivo, esso si inscri­ve­rebbe appieno nel solco della poli­tica euro­pea della fles­si­bi­lità del lavoro per riac­qui­stare com­pe­ti­ti­vità con le sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive interne, del lavoro. Se così fosse, il pro­gramma sarebbe da riget­tare.
Il pro­gramma sul lavoro dovrebbe invece segnare una discon­ti­nuità rispetto al pas­sato e non avva­lo­rare le tesi rifor­mi­ste di Scelta Civica e del sena­tore Pie­tro Ichino. Si dovrebbe andare verso una radi­cale eli­mi­na­zione del super­mar­ket dei con­tratti per indurre le imprese ad inve­stire in capi­tale cogni­tivo ed in inno­va­zione orga­niz­za­tiva. Se si vuole intro­durre il con­tratto a tutele pro­gres­sive, lo si fac­cia non a com­ple­mento dell’esistente, ma in sosti­tu­zione di molto dell’esistente.
</CW>Al con­tempo, l’enfasi quasi osses­siva sulla ridu­zione gene­ra­liz­zata del costo del lavoro come stru­mento per accre­scere la com­pe­ti­ti­vità, nega sia il ridotto peso che ha il lavoro nei costi com­ples­sivi dell’impresa, sia la rile­vanza dell’innovazione nei pro­cessi e nei pro­dotti, nella qua­lità del lavoro. Que­sti sono invece fat­tori car­dine per con­tra­stare la sta­gna­zione della pro­dut­ti­vità che frena sia com­pe­ti­ti­vità che retri­bu­zioni.
La ridu­zione del cuneo fiscale, il nuovo man­tra, avrebbe un senso posi­tivo solo se almeno que­ste tre con­di­zioni sono rispet­tate: che sia con­cen­trata nelle fasce di lavoro a basso red­dito; che pri­vi­legi le imprese che inve­stono in inno­va­zione, tec­no­lo­gie verdi e cono­scenza; che sia rea­liz­zata nel qua­dro di una revi­sione delle detra­zioni fiscali e delle ali­quote fiscali mar­gi­nali sui red­diti, in modo da intro­durre una ben mag­giore pro­gres­si­vità della tas­sa­zione.
Inol­tre, taluni inter­venti sul lavoro, più che sul mer­cato del lavoro, pre­senti e da raf­for­zare nel Jobs Act, sono essen­ziali: rap­pre­sen­tanza e diritti, asse­gno uni­ver­sale, minimi sala­riali, scuola e for­ma­zione. Que­sti sono volti ad esten­dere i diritti e le oppor­tu­nità, coniu­gando i primi con le seconde; sarebbe una strada oppo­sta a quella delle ridu­zioni delle tutele del lavoro pra­ti­cata da decenni. Se si vuole rilan­ciare la com­pe­ti­ti­vità di qua­lità delle imprese sui mer­cati, occorre par­tire da que­sti nodi.
Con­vi­vono poi nel Jobs Act idee di poli­tica indu­striale pub­blica per i set­tori stra­te­gici, sia tra­di­zio­nali e maturi, sia inno­va­tivi. Que­sta non può che essere com­ple­men­tare a poli­ti­che macro, e quindi orien­tata a soste­nere, in pri­mis, la domanda interna, di cui l’impresa per­ce­pi­sce sia la man­canza con­giun­tu­rale che la rile­vanza strut­tu­rale. Creare domanda interna senza inve­sti­menti pub­blici, però, è oggi illu­so­rio ed il lavoro senza que­sta domanda non si crea. Al con­tempo, avere una idea di poli­tica indu­striale signi­fica sce­gliere come e dove posi­zio­nare la nostra mani­fat­tura nel mer­cato glo­bale, in ter­mini di tec­no­lo­gie, pro­du­zioni e domanda, e ciò implica cam­bia­menti strut­tu­rali del sistema eco­no­mico, non solo cre­scita della domanda.
L’Europa è anche il luogo dove si intende lan­ciare il nuovo Indu­strial Com­pact con l’obiettivo di por­tare la mani­fat­tura al 20% del Pil nel 2020. Anche a que­sto occorre rap­por­tarsi se non si vuole rischiare l’isolamento ed il declino indu­striale. Ma l’attivazione di forti inve­sti­menti passa attra­verso la rimo­zione dei vin­coli di bilan­cio (3 per cento deficit/Pil e 60 per cento debito/Pil) impo­sti ai paesi dell’eurozona, se non si vuole rima­nere ad un puro eser­ci­zio reto­rico. Pen­sare che le riforme strut­tu­rali si rea­liz­zino nel rispetto di tali vin­coli con­danna non solo l’Italia a peri­fe­ria dell’Europa, ma la stessa idea di Europa. Solo se tale fosse il senso del Jobs Act e la volontà di poli­tica eco­no­mica che lo sot­tende, allora vi potrebbe essere spa­zio per arti­co­larne i pre­cisi con­te­nuti e farne un pro­gramma di governo per il lavoro.


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