Quei tre anni di contratti a tempo

Quei tre anni di contratti a tempo

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IL CONSIGLIO dei ministri di mercoledì ha approvato un’informativa e la successiva conferenza stampa è stata una presentazione in powerpoint. Eccellente a livello di comunicazione, ma non dissimile dalle relazioni di molti convegni.
Impegni anziché decisioni potenzialmente esecutive, raccolte in articolati. La differenza è tutt’altro che formale. Passare dall’enunciazione di principi a testi di legge richiede prendere una lunga serie di decisioni, alcune ancora più importanti dei titoli generali. Significa introdurre un principio di realtà e porsi dei problemi attuativi fondamentali, su cui cementare un accordo di maggioranza. Ad esempio, un conto è tagliare l’Irpef, un altro è tagliare i contributi sociali: anche se l’effetto in busta paga è lo stesso, tagliando i contributi previdenziali si riducono le pensioni future; intervenendo sull’Irpef si rischia di creare nuovi scaglioni e aliquote effettive rendendo se possibile il sistema fiscale ancora meno trasparente. E gli effetti su consumi e offerta di lavoro (dunque in prospettiva sul costo del lavoro) dipendono proprio da questi “dettagli”. Ancora un esempio: sostenere che i 7 miliardi di tagli alla spesa verranno dalla spending review viola un basilare principio di trasparenza e democrazia. La rassegna della spesa individua tagli su capitoli e sottocapitoli di spesa ben definiti. Cottarelli ha fornito qualche generica informazione su 3 miliardi di tagli, peraltro già contemplati dalla Legge di stabilità del governo Letta. Gli altri 4 (o 7) da dove verranno? Da interventi sulle pensioni più ricche? Insomma ci sono beneficiari e perdenti che vanno informati quando si annunciano provvedimenti e coperture. Ed è fuorviante presentare come “coperture” i 6 miliardi in più di disavanzo che ci dovrebbero portare appena sotto alla soglia del 3 per cento di deficit. Al di là del merito o demerito di questa scelta, si tratta in verità di “scoperture” perché andranno ad aumentare il debito. Infine la lezione degli ultimi 15 anni è che i risparmi nella spesa per interessi legati alla riduzione dello spread vanno utilizzati per ridurre il debito anziché per aumentare il disavanzo primario. Bene ricordarlo quando si sceglie di ripetere gli errori.
La grande svolta dunque sin qui è stata solo annunciata in televisione, come col Contratto con gli Italiani del 2001, rispetto al quale ci sono però due differenze importanti. La prima è che gli impegni sono stati presi da un presidente del Consiglio in carica, a Palazzo Chigi, anziché da un candidato nel mezzo di una campagna elettorale, sul tavolo di ciliegio approntato da Bruno Vespa. La seconda differenza è che, a differenza di allora, gli impegni sono abbastanza cogenti e precisi, come i mille euro in più in busta paga a 10 milioni di italiani promesso entro maggio. Sarà molto più facile controllare che vengano rispettati. E il governo ha poco tempo per passare dalle parole ai fatti: un mesetto al più.
Gli unici atti-fatti approvati sin qui riguardano la casa (ancora lei!) e i contratti a termine e di apprendistato. Il Jobs Act, almeno nella parte destinata a diventare realtà nei tempi che la drammatica situazione della disoccupazione giovanile richiede, comporta di fatto l’introduzione di un periodo di prova di 3 anni durante il quale il lavoratore può essere licenziato senza preavviso. I lavoratori con contratti a termine sono protetti dalle norme sui licenziamenti durante la vita dei loro contratti e, sin qui, si potevano avere al massimo due rinnovi dello stesso contratto con un’impresa nell’arco di 3 anni. Secondo la bozza di decreto uscita dal consiglio dei ministri di ieri, invece, sarà d’ora in poi possibile assumere un lavoratore con contratti di una settimana, fino a 156 volte di fila, arrivando a tre anni di lavoro in prova. Alla fine di ogni settimana il lavoratore può essere di fatto licenziato a costo zero senza alcuna motivazione. Rimossi anche i vincoli di assunzione al termine del periodo di apprendistato. Può essere giusto togliere una serie di costi burocratici introdotti dalle riforme Damiano e Fornero, servirà ad aumentare le assunzioni. Ma qui si rende ancora più acuto il dualismo fra contratti temporanei e contratti a tempo indeterminato, una volta di più tenuti al riparo da qualsiasi ritocco normativo. I due mercati del lavoro paralleli saranno così più lontani l’uno dall’altro in quanto a tutele e salari, dunque costo del lavoro, per cui sarà ancora più difficile passare dai contratti a termine a quelli senza scadenza. Stiamo in questo ripetendo 30 anni dopo gli stessi errori della Spagna: milioni di lavoratori che passano in continuazione da un contratto temporaneo all’altro, proteggendo con la loro flessibilità i lavoratori rappresentati dal sindacato, dato che il rischio di perdere il lavoro si concentra su altri. L’approvazione da parte della Cgil (e di Sacconi) di questi provvedimenti è molto eloquente. Frequente il riferimento nelle presentazioni al terzo settore. Non vorremmo si scegliesse di imitarne il mercato del lavoro, che è troppe volte sinonimo di precariato, con persone che operano nell’associazionismo e nelle cooperative prive di qualsiasi assicurazione sociale, al di sotto di standard minimi. Anche perché i contratti di una sola settimana non daranno mai diritto a un sussidio di disoccupazione, anche il più generoso del mondo.
Per questi motivi è forte il rischio che molti buoni propositi formulati ieri rimangano tali. Il sussidio universale di disoccupazione, il salario minimo e magari anche il reddito mini-
mo sono, peraltro, relegati al disegno di legge delega. Tutti quelli approvati dal Parlamento in passato su politiche del lavoro e ammortizzatori sociali sono scaduti senza venire esercitati dai governi in carica. Per credere all’impegno di vedere la delega approvata ed esercitata entro sei mesi, ci vuole un atto di fede.


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