Quel doppio shock che risveglia l’Unione europea

Quel doppio shock che risveglia l’Unione europea

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QUELLO che sta succedendo ai confini dell’Unione ci spinge a riflettere sul significato dell’identità europea, sul nostro progetto politico e sul futuro comune che vogliamo costruire. Il caso del voto Svizzero contro l’immigrazione è sintomo di un chiaro allontanamento da una delle conquiste fondamentali per l’Unione: la libera circolazione delle persone e dei lavoratori, non certo quella dei capitali. Dall’altra parte, l’Ucraina.
Per i cittadini ucraini scesi in piazza a Maidan, l’Unione rappresenta tutto ciò che è loro negato: stato di diritto, democrazia, libertà civili, benessere, stabilità.
Per molti cittadini dell’Unione invece, la rivoluzione ucraina pro-europea e allo stesso tempo il voto svizzero sono stati un piccolo shock. Com’è possibile che gli ucraini abbiano dimostrato tanta voglia di avvicinarsi a un’Unione ancora in crisi, a bassa crescita, alta disoccupazione e che impone un fardello di regole e burocrazia ai suoi cittadini? E dall’altra parte, com’è possibile che i cittadini Svizzeri, con il loro benessere, con la loro bassissima disoccupazione, abbiano invece voluto mettere in pericolo la loro relazione con il loro più importante partner commerciale, e la partecipazione a programmi culturali e di ricerca comuni?
Svizzera e Ucraina obbligano noi cittadini dell’Unione a una riflessione sulla nostra identità, sui nostri valori, sulle fondamenta su cui si poggia la nostra Unione. Su cosa vogliamo salvare e cosa invece vogliamo riformare, su come vogliamo affrontare le sfide che abbiamo davanti, dal riscaldamento globale ai movimenti migratori, dal sistema economico ai nuovi diritti. Come vogliamo affrontare queste sfide? Uniti o divisi? Conservando o avanzando? Inseguendo o mostrando la nostra leadership come europei?
Molto è stato detto e scritto sull’origine della crisi che ha intrappolato il continente negli ultimi cinque anni. È in parte vero che, se la crisi non è stata fabbricata in Europa, in Europa ha trovato la sua espressione più grave: il peso dell’interdipendenza tra debito sovrano e banche è stato sostenuto dai cittadini, che hanno dovuto assistere a un deterioramento dei salari, dei servizi e della solidarietà europea.
Mentre gli Stati Uniti a inizio crisi davano vita a un sostanzioso pacchetto di stimolo per l’economia, noi siamo rimasti alla finestra e abbiamo aspettato che la crisi si materializzasse in tutta la sua forza prima di intervenire. È vero che la governance economica è stata rafforzata, e che siamo ora meglio equipaggiati per prevenire crisi future. Il quadro normativo è ora molto più forte e veramente europeo.
Grazie soprattutto all’azione del Parlamento europeo sono state create regole per mettere fine ai comportamenti più nocivi del settore finanziario.
Ciononostante non possiamo non ammettere che l’intervento dell’Unione in materia macroeconomica è stato — per utilizzare un lessico caro agli economisti — pro-ciclico: chiedendo agli Stati membri maggiori sforzi nel consolidamento di bilancio, tagli, austerità, senza dall’altra parte creare uno strumento per rilanciare una domanda interna depressa e investimenti al palo.
Mentre dall’altra parte dell’Atlantico si creavano strumenti e politiche innovative per il rilancio dell’economia, sia a livello di politica economica federale, sia a livello di banca centrale, l’Europa si è concentrata soprattutto a estinguere le fiamme. Vediamo ora i segnali di una debole ripresa, ma ancora troppo debole per abbassare significativamente l’alto tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, e per fermare l’emorragia nella chiusura di piccole e medie
imprese. L’Europa ha bisogno di un cambiamento radicale. I partiti euroscettici, e anche alcune voci a sinistra, guardano all’euro come la causa di tutti i mali: una moneta troppo forte che non riflette il differenziale di competitività tra i vari paesi della zona euro. Rifiuto fermamente queste critiche alla moneta unica, una delle conquiste più importanti dell’Unione
europea dalla sua creazione.
L’euro e la Banca Centrale Europea hanno garantito nei loro primi quindici anni di vita un rafforzamento del mercato unico, hanno eliminato le incertezze legate alle fluttuazioni del mercato della valuta all’interno della zona euro, hanno semplificato la vita a chi voleva fare impresa e garantito una stabilità di
prezzi anche nei Paesi come l’Italia in cui, prima, l’inflazione intaccava i risparmi delle famiglie. È vero, è scomparso lo strumento della svalutazione competitiva, ma non siamo più negli anni ’80. L’euro ha funzionato come cuscinetto anti-shock (la Grecia senza l’euro sarebbe direttamente fallita, scenario che abbiamo evitato) e la Banca Centrale con la sua autorevolezza è intervenuta laddove i governi avevano esitato, garantendo l’unità della zona euro.
Il problema non è mai stato l’euro, ma la nostra politica economica. L’Unione si è focalizzata quasi totalmente sul lato dell’offerta, mentre i consumi hanno affrontato una lunga inesorabile crisi, aumentando gli squilibri. L’entrata nella coalizione di governo dei Social Democratici tedeschi, e la creazione di politiche di stimolo come la creazione di un salario minimo in Germania, rappresentano già un’importante segnale di una politica economica più equilibrata per la Germania e per l’Europa.
Anche a livello europeo dobbiamo continuare a correggere gli squilibri. Ma il bilancio dell’Unione da solo, pur essendo un formidabile strumento d’investimento per l’economia reale, per le regioni e i territori, per la ricerca, non è però lo strumento per creare una politica macroeconomica a livello europeo. La creazione di una vera politica economica a livello europeo deve essere uno dei temi centrali della prossima legislatura e di conseguenza uno dei temi centrali delle prossime elezioni europee di maggio.
L’Unione europea non può semplicemente creare una politica fatta di “target” — di cui il più noto è il famigerato 3% — certamente uno strumento utile perché gli Stati si “approprino” delle politiche europee, creando obiettivi nazionali per il raggiungimento di un risultato comune. Ma i target da soli non sono sufficienti. L’Unione ha bisogno di target anche nel campo sociale, ma ancor di più ha bisogno di politiche. La Commissione europea dev’essere un’istituzione assolutamente imparziale, ma non può essere un’istituzione neutrale.
Utilizzando un paragone calcistico, alcuni vogliono fare della Commissione europea un semplice arbitro tra squadre di calcio. La mia idea invece è che le istituzioni comunitarie, Commissione in primis,
debbano avere il ruolo di allenatore, che scelga i giocatori, dia una strategia per affrontare la partita, sia responsabile dei successi, ma anche degli insuccessi della squadra. E quando i risultati sono insoddisfacenti non si cambia l’arbitro, si cambia il giocatore.
Dobbiamo essere in grado di dividere la critica all’Europa di un europeista dalla critica all’Europa di un antieuropeista. Io sono il primo critico dell’Europa, e penso che un cambiamento radicale sia indispensabile, ma nella direzione opposta a quella indicata dagli euroscettici. Credo che le soluzioni vadano cercate in un rafforzamento delle istituzioni comunitarie, sono antidoto al riemergere degli egoismi nazionali e delle pulsioni centrifughe. Credo che solo insieme possiamo trovare risposte adeguate a questa crisi, e che il male di questi anni sia stato soprattutto la troppo poca e troppo tardiva solidarietà fra Stati europei.
Nei trattati non c’è scritto come uscire dalla crisi e l’Unione non è riuscita a imprimere un forte senso di direzione. È arrivato il momento per la politica europea di tornare a osare: osare il cambiamento, osare la solidarietà, ma soprattutto “osare la democrazia”.
L’autore è presidente del Parlamento europeo


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