Francia, tracollo dei socialisti soltanto Parigi salva Hollande

Francia, tracollo dei socialisti soltanto Parigi salva Hollande

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POTEVA andare peggio. L’avere conservato Parigi è una consolazione di rilievo per la sinistra afflitta da tante sconfitte nel resto della Francia. Amministrata per 13 anni dal bravo Bertrand Delanoe la capitale è stata affidata alla sua vice Anne Hidalgo. L’alchimia sociale della metropoli conta, la media borghesia degli arrondissement il cui voto è decisivo, costituisce la base della sinistra dei “bobo” (dall’ espressione americana bourgeois-bohemian). Ma viene naturale pensare che con la designazione del suo delfino si è voluto dare un riconoscimento al sindaco uscente.
La socialista Anne Hidalgo, già vice per 13 anni del sindaco uscente Bertrand Delanoe, è la prima donna a guidare Parigi.
PER il partito socialista la perdita di Parigi avrebbe reso ancora più doloroso l’insuccesso sul piano nazionale, confermato ieri al secondo turno delle municipali.
In questo caso Parigi vale molto per François Hollande. Al culmine dell’impopolarità (uno scarso 19% dei consensi) avrebbe sopportato con un certo fastidio nel vicino Hotel de Ville, sulle rive della Senna, un sindaco di destra con una fresca popolarità. Fino a quarant’anni fa Parigi non aveva un primo cittadino. I capi di Stato, memori dell’insubordinazione dei sindaci nella storia rivoluzionaria di Francia, non ne volevano tra i piedi. Erano dei potenziali concorrenti. Fu Valéry Giscard d’Estaing a ripristinarte la carica nel mezzo degli anni Settanta. Jacques Chirac la conquistò e ne fece il trampolino per occupare il Palazzo dell’Eliseo.
La capitale che resta a sinistra è dunque un salvagente provvidenziale per il presidente, che immagino disorientato nel vedere dissolversi la supremazia della sinistra nella Francia profonda, municipale,
a lungo orgoglio degli amministratori socialisti. Strasburgo avrebbe resistito, stando ai primi exit poll, ma Tolosa sarebbe passata a destra. E a destra è rimasta Marsiglia per via dei socialisti implicati nella cronica illegalità del grande porto mediterraneo. Più di un centinaio di città piccole e medie hanno ripudiato la sinistra. La responsabilità della sconfitta viene inevitabilmente scaricata sull’opacità dei due anni della presidenza di Hollande. Molti sindaci e consiglieri si sono sentiti investiti, travolti, dall’impopolarità del capo dello Stato. Nel partito socialista questo sentimento è molto diffuso, anche se non del tutto giustificato, perché non c’è presidente della Quinta Repubblica che non abbia subito una sconfitta alle elezioni amministrative, in programma proprio nel mezzo del mandato. Questa volta tuttavia il risultato del voto è stato più deludente del previsto, ed è stato aggravato dal successo del Front National. Il quale ha gettato in questa occasione le basi per diventare il terzo partito di Francia. Ma soprattutto, come pensa e si illude Marine Le Pen, «un partito come gli altri».
La situazione particolarmente allarmante (a poche settimane dalle elezioni europee) pone nell’immediato a François Hollande un dilemma al quale non erano sottoposti in simili condizioni i suoi predecessori. Un cambio di governo (semplice rimpasto o un esecutivo più compatto) appare scontato. Inevitabile. Ministri, dirigenti del partito, nella capitale o in provincia, giudicano necessario «accusare il colpo». Bisogna far sentire al paese che il voto non è stato vano. Il cambiamento ci sarà. Subito. Il dilemma riguarda tuttavia la conferma o la sostituzione del primo ministro. Il quale nella Quinta repubblica ha la funzione di fusibile: salta in caso di alta tensione e protegge l’invulnerabile capo dello Stato. Il fusibile del momento è Jean-Marc Ayrault, professore di tedesco, a lungo sindaco di Nantes e grande esperto di
manovre parlamentari. Nei due anni in cui ha occupato l’Hotel Matignon, sede del primo ministro, Ayrault ha contribuito alla impopolarità del governo. Personaggio discreto, di buone maniere e di grande (forse grigia) eleganza, ha espresso insieme al presidente quella “normalità” che nell’emergenza della crisi è apparsa a molti francesi inefficienza, anche se spesso non lo era, ed era piuttosto una prova di understatement, imperdonabile
comportamento in un paese sanguigno.
Non stupisce che in queste ore si indichi come suo probabile successore Manuel Valls, il ministro degli Interni, personaggio grintoso e ambizioso, ma soprattutto dinamico e popolare. Apprezzato anche nell’elettorato di destra, e quindi con qualità preziose in questa congiuntura francese, Valls è di origine catalana. Ne ha il profilo. Il padre, un pittore antifranchista, ha sposato una svizzera italiana. Tra i suoi padrini, da ragazzo, ha avuto lo scrittore toscano Carlo Coccioli. Valls è l’esatto contrario di Ayrault. Durante la campagna elettorale di due anni fa seguiva Hollande passo per passo. Lo informava, garantiva i rapporti con la stampa, gli aggiustava persino la cravatta, e aveva ottimi rapporti con l’allora compagna del candidato. Ma col tempo Manuel ha consolidato la sua posizione fino a diventare un popolare “primo poliziotto” di Francia e favorito nei sondaggi al punto da far ombra al presidente. Molti lo vedono come un futuro, sia pur lontano, candidato all’Eliseo. E questo può adesso essere un handicap. Un primo ministro tanto ambizioso può essere sgradito.
Se il dilemma consiste nella scelta tra la permanenza di Jean-Marc Ayrault o nella sua sostituzione con Manuel Valls, si tratta di un bivio politico e ideologico di grande importanza. Valls è un uomo della sicurezza, impegnato nel disciplinare l’immigrazione. Il sociale e l’economia non sembrano rientrare nelle sue preferenze. Gli elettori lo amano, i militanti del partito non troppo. Nel suo ufficio tiene una fotografia di Georges Clemenceau, celebre personaggio della storia di Francia, chiamato “la Tigre”. Clemenceau fu primo ministro durante la Guerra Mondiale. Era un radical socialista e un anticlericale, un dreyfusardo e un laico, ma come Valls adesso fu anche “primo poliziotto” di Francia e in questa veste, di ministro degli Interni, si oppose a Jean Jaurès, figura canonica e tutelare dei socialisti francesi. Jaurès non avrebbe mai mandato come Clemenceau ventimila soldati nel bacino minerario del Nord per disperdere uno sciopero. Clemenceau diceva che Jaurès «parlava da molto alto, assorbito nel suo meraviglioso miraggio». È quel che dice adesso, con parole simile, Manuel Valls di molti suoi compagni socialisti. La sinistra del partito non lo ama. I ministri sono divisi. Alcuni vogliono andarsene se lui diventa capo del governo, altri esigono che lo diventi al più presto. Molti lo presentano come la versione francese di Tony Blair o di Gerhard Schroeder.


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