Rana Plaza, il giorno che la mia vita cambiò per sempre

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Il 24 aprile dell’anno scorso la mia vita è cam­biata per sempre.
Mi chiamo Shila Begum e ho 24 anni. Vivo in Ban­gla­desh e lavoro nella filiera del tes­sile. Da quasi un anno però non sono più in grado di fare nulla. Sono trau­ma­tiz­zata e il brac­cio mi fa male. Non posso più lavo­rare e non so se riu­scirò mai più a met­tere piede in una fabbrica.
Per oltre due anni ho lavo­rato nel palazzo Rana Plaza, a Dacca. Prima come aiu­tante, tagliando migliaia di fili di orli, tasche e fianchi.
Poi sono stata pro­mossa come addetta alla cuci­tura, con due aiu­tanti di 15 anni cia­scuna. Le gior­nate erano lun­ghe, spesso con turni di dieci ore e un giorno di riposo a settimana.
Il 24 aprile la mia vita è cam­biata per sem­pre. Il giorno prima tutti i lavo­ra­tori e le lavo­ra­trici erano stati fatti eva­cuare per alcune grosse crepe com­parse sui muri del palazzo. Il giorno dopo, nes­suno voleva entrare. Alla fine sono entrata. Se ti minac­ciano di lasciarti un mese senza sti­pen­dio, cosa fai?
Quel giorno dello scorso aprile, appena pochi minuti dopo che avevo ini­ziato a lavo­rare alla mia mac­china da cucire, la cor­rente è andata via e il gene­ra­tore si è messo in fun­zione. Ho sen­tito una scossa e il pavi­mento che spro­fon­dava. Le per­sone hanno ini­ziato a cor­rere in preda al panico e il sof­fitto è crol­lato. Ho cer­cato di pro­teg­germi la testa, ma sono rima­sta inca­strata tra le mace­rie. La mia mano era bloc­cata e ho pen­sato che sarei morta. Le per­sone intorno a me mori­vano, alcuni ave­vano gli occhi fuori dalle orbite e l’intestino che fuo­riu­sciva dalla pancia.
Sono rima­sta intrap­po­lata per tutto il giorno e, come molti altri intorno a me, urlavo chie­dendo aiuto. Alla fine, alle 5 di pome­rig­gio, qual­cuno mi ha tratto in salvo: cer­ca­vano di sol­le­vare le lastre di cemento sopra di noi. Da entrambe le parti delle lastre c’erano per­sone che cer­ca­vano di tirarmi fuori e alla fine ci sono riu­sciti. Ma il peso del cal­ce­struzzo aveva espulso il mio utero e così mi hanno por­tato in ospe­dale. Alle 11 di sera me lo hanno tolto completamente.
Io e mia figlia ci era­vamo dovute spo­stare a Dacca in cerca di lavoro pochi anni prima, quando era morto mio marito. Avevo tra­scorso i sette anni pre­ce­denti a casa per pren­dermi cura di mia figlia, ma con la morte del marito que­sto non era più pos­si­bile. Dovevo farmi carico dei gua­da­gni della fami­glia. Quando arri­vammo a Dacca, pren­demmo una stanza a Savar, zona palu­dosa con fab­bri­che sparse qua e là. Uno di que­sti edi­fici era il Rana Plaza.
Adesso ho biso­gno di cure medi­che e sogno per mia figlia una vita diversa dalla mia: per que­sto mi ser­vono soldi. Le tasse uni­ver­si­ta­rie pos­sono anche essere acces­si­bili, ma tutto il resto costa, come scarpe, libri, uni­formi. Ho una figlia intel­li­gente ma nes­suna pos­si­bi­lità di avere que­sti soldi ora.
La Cam­pa­gna Abiti Puliti insieme ai sin­da­cati inter­na­zio­nali e locali sta con­du­cendo una cam­pa­gna di pres­sione per­ché tutte le imprese mul­ti­na­zio­nali pre­senti al Rana Plaza ver­sino un con­tri­buto nel Fondo per il risar­ci­mento che com­prende tutte le vit­time: oltre mille e cento. Io sono una di que­ste e in que­sti giorni sono qui in Ita­lia a nome di tutte quelle per­sone che stanno sof­frendo per­ché hanno perso tutto e non vedono un futuro.
La mia bat­ta­glia è anche per loro e per il futuro dei nostri figli. Alle aziende inter­na­zio­nali per le quali cuci­vamo i vestiti non chie­diamo bene­fi­cenza ma solo ciò che ci spetta. Noi abbiamo dato tutto ai nostri datori e ai mar­chi inter­na­zio­nali. Il nostro lavoro, il nostro sudore, ore e ore di straor­di­nari sot­to­pa­gati, abbiamo dato anche la vita.
Come pos­sono pen­sare di non pagare ciò che ci spetta di diritto?


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