Postumano Oltre la gabbia del soggetto

Postumano Oltre la gabbia del soggetto

Loading

Negli scorsi giorni la filo­sofa Rosi Brai­dotti, che ad Utre­cht dirige il Cen­tre for the Huma­ni­ties, è stata in Ita­lia (Bolo­gna, Napoli e Roma) per la pre­sen­ta­zione del suo ultimo volume, Il Postumano – La vita oltre l’individuo, oltre la spe­cie, oltre la morte (recen­sito qui il 18 feb­braio 2014). Il postumano è un tema con cui Brai­dotti si misura fin dai tempi di Sog­getti nomadi (1994) dove viene nomi­nato come pro­getto uto­pico e poli­tico con cui fare i conti. In que­sti anni, all’interno di un dibat­tito inter­na­zio­nale viva­cis­simo che l’ha vista al cen­tro di nume­rosi con­fronti, ha pro­se­guito la sua rifles­sione sulla sog­get­ti­vità chia­rendo ora come il posi­zio­na­mento postumano, bus­sola e stru­mento genea­lo­gico, pre­veda anzi­tutto un noma­di­smo acqui­sito sia sotto il pro­filo della teo­ria mate­ria­li­sta del dive­nire che sotto il pro­filo etico-politico. Su que­sto punto, le cate­go­rie che inter­ven­gono sono in effetti quelle che negli anni le hanno con­sen­tito di trac­ciare una map­pa­tura all’altezza dei tempi pre­senti. Sono, que­sti ultimi, anche tempi pen­santi e di par­ti­co­lare potenza, in cui le pra­ti­che poli­ti­che e di resi­stenza gio­cano il pro­prio corpo a corpo con una mol­te­pli­cità di risorse e con­flitti. Anche qui la par­tita gio­cata da Brai­dotti muove da una col­lo­ca­zione esatta: fem­mi­ni­sta, post­co­lo­niale e radi­cal­mente respon­sa­bile. Attra­verso la lezione di Fou­cault, Iri­ga­ray, Deleuze e Guat­tari diri­mente è la forza pro­pul­siva del moni­smo spi­no­ziano e l’apertura alla cri­tica fem­mi­ni­sta con­tem­po­ra­nea. In que­sto cro­cic­chio, le tes­sere del pre­sente si spo­stano e si inter­se­cano verso la ride­fi­ni­zione di umano e disu­mano. Fino al salto definitivo.

Alcuni temi ritor­nano in maniera deci­siva facendo della archi­tet­tura filo­so­fica in dive­nire di Brai­dotti una car­to­gra­fia tra­sfor­ma­tiva delle idee. Tale tra­sfor­ma­zione, che avviene con­se­guen­te­mente alla crisi dell’umano, mostra le trap­pole ma pure le risorse di una con­tem­po­ra­neità tutta ancora da agire.

Uno dei para­dossi più evi­denti della nostra era è, secondo te, lo scon­tro tra la neces­sità strin­gente di affi­darsi a nuove azioni etico-politiche e l’inerzia di chi vor­rebbe curare esclu­si­va­mente i pro­pri inte­ressi e pro­fitti. A cagione di que­sta ultima posi­zione si pro­pone infatti un gene­rico appello al nuovo che risuona come puro eser­ci­zio reto­rico in rela­zione alle logi­che di man­te­ni­mento del potere e indi­vi­dua­li­smo neo­li­be­rale. In que­sto senso inter­cetti quella che chiami forza tec­no­lo­gica libe­ra­trice e tra­sgres­siva, pre­stando atten­zione all’appropriazione da parte di chi vor­rebbe inse­rirle in un discorso tra­di­zio­nale e con­ser­va­tore del sog­getto (per­lo­più auto­cen­trato, bianco, maschio, ete­ro­ses­suale e bene­stante). Mi dici qual­cosa a riguardo?

La reto­rica del nuovo fa parte del pro­gramma di con­su­mi­smo sfre­nato e mania­cale del capi­ta­li­smo avan­zato. C’è una ten­sione tra il poten­ziale gigan­te­sco delle nuove tec­no­lo­gie che hanno come meta il con­trollo del vivente e di tutte le sue forme, e l’uso mono­di­re­zio­nale che ne viene fatto dal capi­ta­li­smo — per cui il capi­tale è la vita stessa. E soprat­tutto il fatto che hanno rial­lac­ciato que­sta mol­te­pli­cità com­plessa alla nozione più restrit­tiva pos­si­bile di indi­vi­dua­li­smo, asso­cian­doci una morale molto stanca, la clas­sica morale neo­kan­tiana uma­ni­stica, che sta andando alla grande. Viviamo in un’epoca mora­liz­za­trice, cruenta e con­trad­dit­to­ria. Quindi io non voglio cadere nel discorso anti­quato della tec­no­fo­bia che pre­vede la tec­no­lo­gia come stru­mento di domi­nio per­ché non ci credo; sono stata allieva di Fou­cault e il potere non è mai a senso unico. Que­ste tec­no­lo­gie sono al tempo stesso libe­ra­to­rie e stru­menti di morte e di distru­zione. Abbiamo droni, tele­fo­nini, fecon­da­zione assi­stita e poi i morti al largo di Lam­pe­dusa; sono ver­santi della stessa meda­glia e noi dob­biamo pen­sare alla con­tem­po­ra­neità e agli effetti del potere, mol­te­plici e con­trad­dit­tori. La forza libe­ra­trice della tec­no­lo­gia è, e dev’essere, fonte di espe­ri­menti. Spe­ri­men­tare alcune di que­ste tec­no­lo­gie, nei limiti del pos­si­bile, sarebbe per me una spe­cie di ride­fi­ni­zione di ciò che la filo­so­fia dovrebbe fare. Ci occor­rono labo­ra­tori fon­da­men­tali con i quali rico­sti­tuire comu­nità di sapere ma anche di saper fare a par­tire da que­ste tec­no­lo­gie. Inol­tre non sono con­tra­ria a priori alle modi­fi­ca­zioni gene­ti­che. Penso per esem­pio alla bio­lo­gia sin­te­tica che è riu­scita a fare le prime por­zioni di carne arti­fi­ciale. Si met­te­rebbe in discus­sione l’obiezione morale di vegani e vege­ta­riani, visto infatti che non è carne da macello di orga­ni­smi viventi. C’è poi un labo­ra­to­rio molto forte e bello riguardo i disa­bi­li­ties stu­dies che stanno andando in dire­zioni molto più inte­res­santi rispetto ad esem­pio agli studi sulla ses­sua­lità in gene­rale, pro­prio per­ché i corpi sono già modificati.

Tra le trap­pole dell’appropriazione neo­li­be­rale della tec­no­lo­gia, c’è una piega che con­cerne ciò che in Tra­spo­si­zioni (2006) chiami tecno-utopismo dell’ambiente acca­de­mico. Cosa intendi con que­sta forma di mistificazione?

Negli anni Novanta, alla fine dell’ondata dei cul­tu­ral stu­dies e più o meno all’inizio della svolta queer, c’è stato un momento di grande eufo­ria verso le tec­no­lo­gie. Le tecno-utopie sono state da una parte impor­tanti per­ché ci hanno per­messo di com­bat­tere quel disfat­ti­smo tec­no­fo­bico che per me fa sem­pre parte di una certa cul­tura di sini­stra seguendo il ragio­na­mento tecnologia=potere=proprietà di qualcuno=lotta di classe; equi­va­lenze che fanno parte della mia gio­vi­nezza; sono una donna di sini­stra, vengo dal fem­mi­ni­smo e so, insieme a Fou­cault, che il potere è sem­pre più com­pli­cato di que­sto. Ci sono altre moda­lità di pen­siero per le quali fon­da­men­tale è il mani­fe­sto del 1985 di Donna Hara­way. Il mani­fe­sto cyborg che nella ver­sione ori­gi­nale è sot­to­ti­to­lato come mani­fe­sto socia­li­sta e fem­mi­ni­sta, com­ple­ta­mente sva­nito nella nuova edi­zione. Trovo invece che sia molto impor­tante ripen­sarlo per­ché era un socia­li­smo come pos­si­bi­lità di comu­nità a venire. Ci è voluto qual­che annetto per capire la muta­zione del capi­ta­li­smo in un sistema di ri-formazione e ri-creazione del vivente. Nel poli­tico siamo nella con­fu­sione più totale; da una parte il capi­ta­li­smo si è dato una pra­tica post-antropocentrica, ha equi­pa­rato tutte le spe­cie, tutte le forme viventi, alla logica del pro­fitto. Se tu guardi la robo­tica per esem­pio, non stiamo clo­nando solo il sistema neu­ro­nale e sen­so­riale dell’umano ma anche il fiuto dei cani, il radar e il sonar di del­fini e pipi­strelli. Cioè il nostro corpo è un appa­rato piut­to­sto anti­quato rispetto ad altre spe­cie ani­mali. Quindi c’è un postu­mano di fatto, però nel discorso pub­blico siamo ancora ad una forma di con­ser­va­to­ri­smo neou­ma­ni­sta, con una mora­liz­za­zione ter­ri­fi­cante e forme di rea­zione asso­lu­ta­mente inquie­tanti. Invece di tecno-utopie ci sono da fare delle map­pa­ture, delle car­to­gra­fie cri­ti­che di que­ste con­trad­di­zioni. Per evi­tare anche di ripe­tere una morale stanca che da Nie­tzsche in poi abbiamo cri­ti­cato in filo­so­fia. Anche con la fac­cia sor­ri­dente di papa Fran­ce­sco e quella — meno pia­ce­vole — di Renzi, non si può tor­nare a pra­ti­che di una vita defi­nita sotto l’egemonia dell’umanesimo in un’epoca in cui il capi­ta­li­smo ci ha dato un post-antropocentrismo per­verso; non è giu­sto, que­sta è una beffa molto cru­dele che rischiamo di pagare caro. Quindi dob­biamo rife­rirci ad un’etica postu­mana, que­sta è la mia linea. Non pos­siamo pen­sare ai droni, ai com­pu­ter che fanno i cal­coli in borsa nella cor­nice della morale kan­tiana, dob­biamo comin­ciare a inse­rire nel loro pro­gramma domande di natura etica in grado di farli per­dere in velo­cità ed effi­ca­cia, di non farli fun­zio­nare più. Quando i droni israe­liani spa­rano nei ter­ri­tori occu­pati non stanno ad aspet­tare o a inter­ro­garsi. Quando Google-earth deve can­cel­lare dalle sue foto satel­li­tari le corse dei droni, che sono cen­ti­naia, i test morali risul­tano inu­tili. Quindi pian­tia­mola con que­sta fac­cenda; biso­gna ral­len­tare tutto e cam­biare il verso di que­ste tec­no­lo­gie, spe­ri­men­tare un’altra etica. Ma que­sta com­bi­na­zione di post-antropocentrismo capi­ta­li­sta e neou­ma­ne­simo sociale è una cata­strofe. Ci risuc­chia ener­gie e fun­ziona: que­sta morale la capi­scono tutti; tipo quella della cura; dun­que “abbi cura”, poi però quelle che devono aver cura sono sem­pre le donne.

Que­sto tema della cura mi inte­ressa, per­ché come altre credo che il fem­mi­ni­smo ne abbia scal­zato il carat­tere obla­tivo. Ne Il Postu­mano, quando poni la rela­zione tra l’eccedenza di zoe e la con­sa­pe­vo­lezza fem­mi­ni­sta, dici infatti “io sono la madre terra, gene­ra­trice di futuro”. Chiaro come ciò ine­ri­sca al carat­tere della tem­po­ra­lità ma anche dell’aver cura.

Il posi­zio­na­mento fem­mi­ni­sta nel libro ha molti piani per­ché ha vari obiet­tivi. Uno di que­sti è costruire delle car­to­gra­fie ragio­nate attra­verso cui com­pren­dere come siamo arri­vati a que­sto sca­val­ca­mento dell’umano. Un altro obiet­tivo è quello di por­tare la que­stione della dif­fe­renza nel postu­mano. Il terzo è quello spinozista-monista di spe­ri­men­tare nuove eti­che, nuove comu­nità, nuove cosmo­lo­gie; cioè pen­sare, essendo stata allieva di Deleuze, nuove forme per leg­gere il pre­sente. Il punto di par­tenza è la cri­tica al sog­getto uni­ta­rio. La teo­ria del pren­dersi cura di Gil­li­gan, Tronto e di molti altri resta all’interno di un pen­siero libe­rale nella stra­grande mag­gio­ranza dei casi. Le tem­po­ra­lità che ci abi­tano come sog­getti sono dif­fu­sis­sime; dalla tem­po­ra­lità cro­no­lo­gica a quella cir­co­lare da Nie­tzsche in poi a quella trans­pe­cie fino ad arri­vare a tem­po­ra­lità di memo­rie pro­te­si­che. Non pos­siamo tor­nare all’uno. Il mio pro­blema con la cura è stato que­sto. Il pezzo che tu citi io lo chiamo momento di opera rock. Sono momenti abba­stanza dif­fusi nel libro in cui metto in scena il mio pen­siero nomade dicendo essen­zial­mente che io uomo non lo sono mai stata e non ho mai voluto esserlo. Non uno, non lui, non quello, non così. Mai. Io sono della gene­ra­zione della dif­fe­renza che è stata una spac­ca­tura dall’umanismo, da quell’uno, uomo, bianco, maschio, ete­ro­ses­suale da cui hai comin­ciato giu­sta­mente l’intervista. Que­sto è stato il mio oriz­zonte. Noi siamo sem­pre state le lupe che cor­re­vano nella notte, ulu­lando giu­sti­zia ma anche rab­bia, amore, feli­cità insieme a tutto il resto. Quindi c’è que­sta parte di me che credo sia non solo gene­ra­zio­nale ma pro­prio con­cet­tuale e teo­rica che non si è mai imme­de­si­mata con quell’uno. Ciò non signi­fica che non abbiamo cura dell’altro. Il con­te­ni­mento dell’altro in un’ottica spi­no­ziana e deleu­ziana (c’è anche Iri­ga­ray ma è un caso più com­pli­cato) con­si­ste in una spe­ci­fi­ca­zione reci­proca. Auto­ge­stiamo la nostra spe­ci­fi­ca­zione, defi­nia­moci in quanto postu­mani, col­let­ti­va­mente e uno in rap­porto all’altro, una in rap­porto alle altre, su momenti di pra­tica molto pre­cisi. C’è un postu­mano nella teo­ria, c’è un postu­mano nella pra­tica, c’è un postu­mano nell’etica, ci sono momenti e pra­xis con­crete e imma­nenti che ci per­met­tono di autodefinirci.

Molta della tua rifles­sione si è con­cen­trata verso le scienze umane e una idea spe­ci­fica di uni­ver­sità o, come la chiami, mul­ti­ver­sità. Penso al quarto capi­tolo di Il Postu­mano. In con­si­de­ra­zione degli alti livelli di media­zione tec­no­lo­gica da un lato e delle strut­ture del mondo glo­ba­liz­zato dall’altro, auspi­chi una meta­mor­fosi epi­ste­mo­lo­gica delle scienze umane. Intanto par­tendo da un assunto che è quello che muove la tua intera rifles­sione filo­so­fica, e cioè il rea­li­smo di una mate­ria capace di affetti, auto­ge­stione e auto­po­iesi. Inter­cetti dun­que la teo­ria fem­mi­ni­sta come cru­ciale punto di rife­ri­mento meto­do­lo­gico e teo­re­tico. Anche nelle scienze umane postu­mane, è ancora una volta il fem­mi­ni­smo a fare la differenza?

Asso­lu­ta­mente. Non mi pre­oc­cupo del fem­mi­ni­smo come movi­mento poli­tico che sta pro­ce­dendo molto bene soprat­tutto gra­zie alle gio­vani fem­mi­ni­ste sparse nel mondo. A livello di pen­siero però le meto­do­lo­gie fem­mi­ni­ste, nono­stante l’esistenza di women’s stu­dies e gen­der stu­dies, non sono pas­sate all’interno delle uni­ver­sità. Secondo me la meto­do­lo­gia fon­da­men­tale è quel par­tire da sé, che però io coniugo con la dis­so­lu­zione del Sé. Quindi par­tire da un Sé che non è mai uno ma già una rela­zione. Un sapere situato è ren­dere conto del pro­prio posi­zio­na­mento e non par­lare in maniera uni­ver­sa­li­stica e gene­rale, per non aspi­rare nep­pure a quelle mega-teorie del tutto di cui una buona fetta della sini­stra è ancora molto inna­mo­rata. La teo­ria della rivo­lu­zione per esem­pio, del “o cam­biamo tutto o non vale la pena di cam­biare niente” pro­duce un asso­lu­ti­smo che mi pre­oc­cupa molto. Il fem­mi­ni­smo è sem­pre stato molto più pra­tico e molto più effi­cace: si cam­bia il vivente a par­tire da sé, il per­so­nale è poli­tico e le rela­zioni sono al cuore di tutto. Trovo che il moni­smo spi­no­ziano si coniu­ghi per­fet­ta­mente con que­sta poli­tica situata. C’è in que­sto momento, a livello di pen­siero, una strana can­cel­la­zione del fem­mi­ni­smo soprat­tutto da parte dell’università, la quale tut­ta­via can­cella un po’ tutto il Ven­te­simo secolo ma anche di quello che resta della sini­stra. Diciamo dal 1989 in poi, se si guar­dano autori che i miei stu­denti (soprat­tutto maschi) amano, per esem­pio Žižek, Badiou ma lo stesso Negri, si può notare come que­sti ultimi abbiano can­cel­lato il fem­mi­ni­smo. Non lo citano mai come esem­pio di un movi­mento che ha rein­ven­tato il poli­tico. Žižek ci va giù pesante, siamo al meglio un pic­colo movi­mento cul­tu­rale che non ha capito niente; Badiou ancora peg­gio; un paio di note di Negri in un libro (La dif­fe­renza ita­liana, Not­te­tempo 2005) in cui scrive di Muraro, certo, ma si arra­bat­tano e non rico­no­scono il fem­mi­ni­smo come un labo­ra­to­rio di pra­ti­che. E que­sto è un dramma per­ché lì c’è un dia­logo e con­ta­mi­na­zioni reci­pro­che che sono sal­tate. Per finire, c’è anche da dire che la sini­stra, in par­ti­co­lare la scuola ita­liana di studi cri­tici sul capi­ta­li­smo (per esem­pio Virno, Laz­za­rato, Mez­za­dra), potreb­bero osare, spe­ri­men­tare di più con scienza e corpi. In que­sto per­fino Fou­cault non è riu­scito, il suo mae­stro Can­gui­lhem era più attento di lui. Noi avremmo molto da dire a riguardo, abbiamo avuto una serie di geni, tra cui spicca Hara­way, ma anche la scuola ita­liana di Gagliasso, che la scienza l’hanno capita benis­simo. Insieme a que­ste ci sono pure molte eco­no­mi­ste fem­mi­ni­ste che sosten­gono che il capi­tale è oggi la vita, nient’altro che i codici infor­ma­tivi del vivente; un’affermazione che cam­bia tutti i gio­chi. Quindi ci sono come degli anelli man­canti. Mi sem­bra che in Ita­lia sia un momento in cui si deve riflet­tere su cosa conta come gesto poli­tico. Il fatto per esem­pio che il fem­mi­ni­smo sia stato rimosso da un movi­mento poli­tico che poi lamenta che non abbiamo modelli di poli­tica mi rende dav­vero furiosa. Soprat­tutto quando si devono rice­vere accuse come “voi non avete fatto niente”, in un momento in cui io vedo risor­gere una vio­lenza che mi pre­oc­cupa molto. Dalla prima pal­lot­tola la vostra rivo­lu­zione non ci inte­ressa più. Gira­vano slo­gan come que­sti negli anni ‘70 e qui stiamo tor­nando a una rab­bia nichi­li­sta che mini­mizza sbri­ga­ti­va­mente ciò che il fem­mi­ni­smo ha pro­dotto come modello alter­na­tivo di poli­tica. Su que­sto credo che l’Italia abbia qual­cosa su cui riflet­tere. O ci ascol­tate o non con­tate su di noi per fare una rivo­lu­zione anti­quata che farà sol­tanto il gioco delle leggi spe­ciali della repres­sione e non ser­virà a niente. Sulla que­stione del postu­mano dun­que mi sem­bra che stiamo assi­stendo, in que­sto momento di sgo­mento e rab­bia dovuti alla crisi, alla ripro­po­si­zione dell’antropocentrismo e nar­ci­si­smo della sini­stra. Rimuo­vere il fem­mi­ni­smo apre la porta alla vio­lenza, soprat­tutto con­tro le donne, insieme al ritorno di una vio­lenza rivo­lu­zio­na­ria che ha già fal­lito e che non mi pare il caso di riproporre.

La rab­bia che pro­viamo quando subiamo o assi­stiamo a un’ingiustizia è una pas­sione che deve per­met­terci di soste­nere il pre­sente, di modi­fi­carlo a seconda dei nostri desi­deri, invece di disper­derla in inef­fi­caci atti nichi­li­sti, noi pos­siamo tra­sfor­marla in affetto posi­tivo. Inve­stiamo nella ricerca di alleanze tra­sver­sali, di siner­gie ine­dite, ela­bo­riamo saperi comuni lon­tani dalle logi­che del pro­fitto, con­ta­mi­nia­moci e dif­fon­diamo micro-politiche alter­na­tive ai modelli domi­nanti, stili di vita eco­so­ste­ni­bili, anti­ses­se­si­sti e antirazzisti.

Non voglio più eroi morti.


Tags assigned to this article:
PostumanoRosi Brai­dotti

Related Articles

“Così ho visto piangere Einaudi vi svelo i segreti del grande editore”

Loading

Cerati: “Timidezza e lacrime ecco il volto segreto di Giulio”.   Il 2 gennaio 2012 si celebra l’anniversario della nascita dell’editore. Così lo ricorda il suo grande collaboratore: “Ci teneva alle vendite altro che ideologia. E l’ho visto piangere quando le cose non andavano bene”. “Vittorini, Carlo Levi e Calvino erano magnifici ‘promotori di libri’. C’era pure Monica Vitti bellissima e spiritosa”. “Come un patriarca voleva che nessuno mai abbandonasse la ‘famiglia’ che lui aveva creato”

Rabbia senza voce

Loading

COME L’ITALIA HA SMESSO DI INDIGNARSI.   “Io vi maledico”, il nuovo libro di Concita De Gregorio. Dai precari alla scuola alla tv, le storie vere di un Paese rassegnatoLa lettera mai scritta della figlia di un operaio umiliato, la denuncia silenziosa contro l’Ilva, il rancore soltanto in Rete. Sono tutti esempi di qualcosa di profondo: una collera sminuzzata in tante singole collere che non si incontrano 

Il nome della cosa

Loading

Ed ecco che il papa Fran­ce­sco dà il nome alla cosa: respin­gere i pro­fu­ghi è guerra, e cac­ciare via da un Paese, da un porto, da una sponda i migranti abban­do­nati al mare, è vio­lenza omicida

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment