Il dissidio tra politica e mercati minaccia il futuro dell’Europa

Il dissidio tra politica e mercati minaccia il futuro dell’Europa

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Le prospettive dell’Unione Europea non sono incoraggianti, due colossali handicap si sommano, rafforzandosi a vicenda. Un handicap di sostanza, poiché tutti sono in disaccordo con tutti su un numero crescente di questioni; e un handicap di mezzi, poiché il sistema politico-istituzionale è blindato e non lascia spazio a chi voglia portare a buon fine un’iniziativa qualunque. Già nel 2003 avevo rilevato che l’Unione sembrava ridestarsi solo quando si trovava sull’orlo del baratro, osservazione che oggi sembra confermata. In apparenza funziona solo il servizio di salvataggio minimo comune che mette in opera complessi espedienti, in parte al di fuori dei Trattati.
Il politologo americano Robert Dahl ha descritto le relazioni tra il mercato e la politica come quelle di una «coppia infelice». La crisi ha fornito un esempio lampante di quella relazione ambivalente, caratterizzata, in definitiva, dall’incredibile predominio dei mercati anche quando il loro fallimento è quasi totale, o forse proprio perché è totale. I mercati sono riusciti a trasformare in debito pubblico degli enormi debiti privati insolvibili, dettando le condizioni della transazione e mettendo in difficoltà nello stesso tempo i pompieri accorsi per tentare di spegnere l’incendio.
L’operazione di soccorso è piena di pecche: lascia intatte le tare del sistema, i blocchi, la rigidità, l’assenza di legittimità democratica. Ma la routine burocratica di Bruxelles potrebbe continuare. Lo si è osservato durante la crisi: nuovi Stati aderiscono al club nonostante i suoi problemi, altri entrano nell’euro. I negoziati con la Turchia riprendono come se tutto andasse per il meglio. L’impulso, quando c’è, non viene dalla politica, come sarebbe giusto nelle società democratiche; è impresso da strutture tecno-burocratiche non elette: la Commissione, la Bce, la Corte di giustizia e le Corti supreme degli Stati membri.
Questo scenario è anche pieno di incertezze. Per due motivi opposti. Il primo dipende dai mercati, che potrebbero stancarsi di una simile incapacità di agire e sparare un colpo d’avvertimento potenzialmente fatale. Nel caso di una grave crisi internazionale, potrebbero anche lasciarsi prendere dal panico e trascinare con sé nella caduta il corpo fragile l’Unione. E questo per quanto riguarda il primo elemento della «coppia infelice». Un colpo di diversa natura potrebbe venire dal secondo elemento della coppia: la politica o, meglio, il popolo, sempre più frustrato e scontento. Molti indizi concordano nell’annunciare alle elezioni europee una forte scossa tellurica: un misto di anomia politica e di veementi proteste che probabilmente farà tremare tutto l’edificio. Sarebbe però un grave errore limitarsi a deplorare l’ignoranza della gente, il suo accecamento, la sua incapacità di capire le questioni complesse. Le condanne ex cathedra sono inadeguate e rischiano di essere controproducenti, se non sono accompagnate da un soprassalto delle élite europee. Se finalmente quel soprassalto si producesse e l’Europa prendesse coscienza che è ora di cambiare, dovremmo dire grazie ai populisti.
Anche i federalisti più convinti devono ammettere che la prospettiva federale in Europa non suscita entusiasmi, forse perché appare inattuabile, forse perché non si è spenta la profonda convinzione che lo Stato nazione rimane la base di ogni organizzazione politica. Oggi nessun governo sostiene la prospettiva federale; gli elementi «federali» della costruzione europea, come la Commissione di Bruxelles, sono diventati il bersaglio favorito di tutte le critiche; la stessa opinione pubblica si è radicalizzata. La federalizzazione è il nemico da battere, poiché non solo permetterebbe una maggiore integrazione, ma indebolirebbe notevolmente lo Stato nazione. In questo momento le speranze di successo del federalismo tendono a zero!
Tuttavia la situazione è meno semplice di quanto non sembri. Dentro questo clima di ostilità quasi generalizzato si sta realizzando, all’insaputa di tutti, una sorta di federalizzazione tecnica. In questo senso tre sviluppi recenti sono particolarmente interessanti. L’adozione del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance, di cui si prevedeva l’entrata in vigore subito dopo la ratifica da parte di 12 Stati membri sui 17 della Eurozona, rappresenta una rottura senza precedenti rispetto alla regola dell’unanimità che domina nell’Ue. Si tratta, è vero, di una pratica spesso adottata a livello internazionale per aggirare l’ostacolo di un diritto di veto generalizzato, ma al tempo stesso rappresenta l’accettazione della regola che ha permesso alla confederazione americana di diventare una federazione. Certi Stati non hanno aderito a cuor leggero, ma la necessità di far fronte alla crisi ha fatto mettere da parte le esitazioni. La novità procedurale accettata sotto la spinta della necessità è destinata a rimanere un’eccezione oppure, se le circostanze lo imporranno, potrà essere l’inizio di una «rivoluzione»? Anche l’adozione delle regole riguardanti l’Unione bancaria e la supervisione delle banche da parte della Bce rappresenta un notevole avanzamento «tecnico» sulla via della federalizzazione. Un terzo progresso inaspettato ha sbalordito gli osservatori: per la prima volta l’arcigna guardiana della Costituzione tedesca, la Corte di Karlsruhe, ha richiesto l’opinione pregiudiziale della Corte del Lussemburgo. Per uscire in modo elegante da una situazione delicata, d’accordo… Ma ormai il passo è fatto.
Questi progressi, impensabili prima della crisi, sono un’arma a doppio taglio poiché, ben lungi dal risolvere la questione della legittimità, grave lacuna delle politiche europee, mettono ulteriormente in risalto la questione scottante della democrazia. In effetti per l’Unione la questione democratica rappresenta «il» problema per eccellenza. Tutte le altre questioni sono subordinate e la loro accentuazione mette in evidenza la situazione insostenibile nella quale le élite europee si rinchiudono, senza mai tentare di trovare e proporre una soluzione.
Più il progetto europeo si sviluppa e di fatto, nonostante la crisi o a causa di essa, il peso dell’Europa aumenta a spese delle istituzioni nazionali, più cresce la divaricazione tra la democratizzazione auspicabile e quella possibile. I federalisti insistono nel dire che solo uno statuto federale — dando una forma politica a un progetto europeo oggi poco incisivo — può salvare l’Europa. Bisogna ammettere che solo il progetto federale e le posizioni euroscettiche britanniche hanno una coerenza intellettuale e insieme pratica. Tutte le altre soluzioni si rivelano ibride e poco praticabili.
Le elezioni del maggio 2014 avrebbero potuto essere un’occasione ideale per permettere ai popoli europei di mobilitarsi intorno a un progetto per il futuro, mentre la serie di consultazioni nazionali per scegliere i portaborse dei partiti sarà un’occasione mancata: un invito a nozze per i protestatari e i populisti antieuropei. Forse la conquista dell’Europa potrà ripartire proprio da quel colpo d’avvertimento. A condizione, però, che le élite raccolgano il messaggio.


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