Tra gli sfollati senza acqua e corrente

Tra gli sfollati senza acqua e corrente

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GAZA . La quinta tregua di questa guerra di Gaza è durata solo mezz’ora. È questo il tempo che è passato dal sì di Hamas alla “tregua umanitaria” al lancio del primo razzo contro Israele, anzi una salva di cinque diretti verso le città israeliane della costa, ma anche a quelle dell’interno come Beersheva, mettendo nel gelo la popolazione civile della Striscia che alla terza settimana di bombardamenti a tappeto è provata, violentata e annichilita. La vita a Gaza resta sospesa e la morte resta dietro l’angolo, perché nessun luogo è sicuro nemmeno le scuole con la bandiera blu dell’Onu.
Ondeggia la piccola gru degli uomini della Compagnia elettrica sotto uno dei piloni dell’alta tensione appena fuori l’abitato di Beit Hanoun. Un sole impietoso che sembra voler bruciare tutto investe i cinque operai col caschetto che si affannano a rimettere in sesto il traliccio che porta elettricità a questa zona della Striscia. Sul camion le bandiere bianche sono ben visibili ai soldati israeliani che appostati a meno di duecento metri, protetti da un terrapieno tirato su in gran fretta la notte scorsa, che dai binocoli controllano tutta questa porzione di territorio sul confine. L’elettricità è la prima emergenza a Gaza. Oltre 1 milione e duecentomila abitanti di questo fazzoletto di sabbia sono senza corrente, e questo significa anche senza acqua: quella che esce dai rubinetti di chi una casa ancora ce l’ha è invasa dai colibatteri e dal sale marino. Il 91% dell’acqua di Gaza non è adatta all’uso domestico. L’elettricità è necessaria alle oltre 90 scuole dell’Unrwa che hanno accolto ormai quasi 170 mila sfollati, fuggiti da quartieri e rioni che sono stati spianati dalle bombe dei caccia F-16, dagli elicotteri da combattimento Apache, dai droni, dall’artiglieria della Marina e dai cannoni dei tank, schierati lungo i 37 chilometri di confine che la Striscia condivide con Israele. Senza elettricità i filtri per purificare l’acqua non funzionano più, e l’umanità che si è accampata in queste scuole vive al momento con le 3 bottiglie da un litro a testa che l’Unrwa riesce a fornire. Tre litri per tutto: per lavarsi, per bere, per cucinare. Con una temperatura che di giorno non scende mai sotto i 36 gradi, non possono assicurare una lunga sopravvivenza. I liquami sversati direttamente a mare — centomila metri cubi al giorno — invadono intere strade perché le bombe hanno sventrato le condotte e il loro fetore si mescola a quello della plastica bruciata, quello della morte che sale ancora dalle macerie mentre la bocca inaridisce per il pulviscolo di cemento e sabbia che aleggia ovunque.
I primi soccorsi dell’Unrwa, nonostante lo sforzo impressionante per questa nuova emergenza, arrivano col contagocce. I camion con materassi, medicinali e pasti pronti per gli sfollati, fanno file di ore al valico di Kerem Shalom, l’unico attraverso il quale gli israeliani permettono il passaggio delle merci verso Gaza. È nel profondo sud della Striscia, quasi al confine con l’Egitto. I mezzi con la bandiera blu dell’Onu poi devono risalire lungo quel che resta della strada costiera tutta la Striscia per raggiungere i depositi. Ore e ore di viaggio tra le bombe e le macerie, con le colonne costrette a lunghe fermate prima di attraversare quelle che erano zone abitate e da dove invece ora si affacciano i nuovi sfollati di questa guerra che si vanno ad aggiungere al milione di profughi — delle guerre del 1948, 1967 e 1973 — che già viveva solo grazie alle razioni alimentari dell’Unrwa. Con la breve pausa dei combattimenti sabato e ancora ieri mattina gli abitanti di Gaza hanno potuto vedere con i loro occhi quali immani distruzioni hanno provocato venti giorni di guerra totale — persino la caserma dei pompieri è stata bombardata — di Hamas contro Israele. Eppure i fedeli di Khaled Meshaal e di Ismail Haniyeh cantano vittoria dalle loro radio in FM e dalla tv “Al Aqsa”, i cui uffici downtown sono entrati ieri mattina nel mirino dei piloti israeliani.
Il ritmo dei bombardamenti ieri è stato minore degli altri giorni così come il numero dei missili lanciati contro Israele. Lo scontro si è trasferito a terra, nei villaggi e nelle zone sul confine. I mezzi corazzati e le forze speciali israeliane cercano di avanzare in queste zone ormai in macerie a caccia dei tunnel d’attacco — la vera sorpresa di questa guerra — usati dai mi-
liziani per colpire le fattorie e gli abitati israeliani che sono ben visibili dalle rovine di Shejaya, di Beit Layha e Beit Hanoun. Un avanzata lenta e sanguinosa, perché ogni palazzo sventrato, ogni auto abbandonata può rivelarsi una trappola. E nel principio feroce della “prima linea” i soldati sparano su qualunque cosa si muova. In giorni come questo alla vigilia della festa più importante fra quelle islamiche, la Aid al Fitr che segna la fine del Ramadan, le famiglie di Gaza pur nella loro visibile indigenza erano impegnate con gli abituali preparativi. Vestiti nuovi per i bambini, scarpe, un taglio di capelli, le famiglie che si visitano a vicenda. Nel mercato all’aperto del campo profughi di Jabalya, in mattinata venditori speranzosi hanno allestito le bancarelle. Ahmad Abul Atta vende scarpe, ieri a fine mattinata ancora non ne aveva vendute nemmeno un paio. Anche lui è sfollato, ma è stato fortunato a trovare dei parenti che ospitano lui e la sua famiglia dopo la fuga sotto le bombe nel distretto di Shajaya e racconta di un cugino e altre tre congiunti rimasti sotto le rovine di casa, morti che non hanno ancora una tomba nella sabbia ocra di Gaza perché i soccorritori non sono riusciti a mani nude a farsi largo fra le rovine. «I miei figli sono passati dentro tre guerre in dieci anni di vita, è stato distrutto il futuro nostro e quello dei nostri figli», dice mentre si asciuga le lacrime, «è la festa più importante per noi musulmani, ma a Gaza non possiamo sentire alcuna gioia».



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Dalle nove del mattino alle sette di sera. Le raffiche d’arma da fuoco sono andate avanti per una giornata intera. Lo scontro tra le forze nigeriane e britanniche, da una parte, e i rapitori di Franco Lamolinara e Chris McManus, dall’altra, è durato a lungo. Lo racconta Haruna Shehu Tangaza, impiegato dal notiziario africano della Bbc e testimone del tentativo di liberare i due ostaggi nel Nord della Nigeria. «Lo scontro armato è andato avanti per ore – racconta Tangaza dalla cittadina di Sokoto – dentro alla casa c’erano i rapitori, fuori i militari».

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