Gaza, inferno di bombe 120 morti in un giorno Due milioni senza luce

Gaza, inferno di bombe 120 morti in un giorno Due milioni senza luce

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GAZA. UNA pioggia di bombe la risposta. L’Olp, Hamas e la Jihad islamica propongono, assieme, una “tregua umanitaria di 24 ore”. Hamas, però, vuole una risposta da Israele. Che non arriva. Chiede anche la fine delle operazioni militari e del blocco su Gaza. Il fronte della tregua si sfalda. Gli abitanti di diverse zone a ridosso di Gaza City come Jabalya, Zeitun, Izbet Abed Rabbo fuggono dopo l’intimazione dell’esercito israeliano di sgombrare l’area.
Nella notte in decine di migliaia si erano messi in cammino al buio, i più fortunati con una pila tascabile in mano, per ottodieci chilometri spinti dal terrore, mentre dal cielo cadeva un diluvio di bombe e i bengala illuminavano per i tank gli “obiettivi” da colpire. Molte vittime sono state colpite durante questa fuga disperata verso il centro di Gaza City in cerca di un rifugio. La fuga disperata dalla morte ha portato il numero degli sfollati a oltre 300 mila e a Gaza non c’è più posto per nessuno, rimanere a casa per molti è l’unica alternativa. Centomila hanno trovato ospitalità da parenti e amici, 200 mila sono stipati nelle scuole dell’Unrwa, già al collasso.
La situazione è insostenibile, in ogni aula sono ammassate fino a cento persone, soprattutto donne e bambini; mentre gli uomini si raccolgono nei cortili. Un’umanità disperata che deve essere nutrita, dissetata ogni giorno e alla quarta settimana anche l’Onu è sull’orlo di alzare bandiera bianca, dieci funzionari locali sono rimasti uccisi mentre provvedevano a dare soccorso a questi sfollati. Chi ha ancora una casa non ha più elettricità, perché fra gli obiettivi colpiti e distrutti ieri c’è anche la centrale elettrica che già funzionava a scartamento ridotto per i bombardamenti dei giorni scorsi. Ieri mattina una colonna di fumo nero saliva per chilometri nel cielo incredibilmente azzurro, spargendo i suoi miasmi su tutta la zona di Khan Younis e Nusseirat. Le fiamme hanno divorato anche parte della campagna circostante già invasa di cadaveri di animali fuggiti dalle fattorie e uccisi dal fuoco e dalle bombe. Due milioni di persone sono al buio e alla sete, perché senza elettricità non arriva l’acqua nelle case della Striscia. Si allunga ogni giorno di più l’ombra malefica di una crisi umanitaria senza precedenti a Gaza. I morti sono già oltre 1200 e quasi settemila feriti, assistiti in maniera precaria e provvisoria negli ospedali dove medici e chirurghi si affannano in una povertà di mezzi e risorse che lascia sgomenti.
Tra gli obiettivi simbolo colpiti da Israele nella notte di martedì, oltre alla casa dell’ex premier Ismail Haniyeh nel campo profughi di Shati, la moschea downtown dove abitualmente i leader di Hamas si ritrovavano per la preghiera del venerdì, anche sede della tv Al Aqsa, la voce di Hamas nella Striscia, che è stata completamente distrutta. Ma non ridotta al silenzio perché l’antenna del segnale è certamente nascosta da qualche parte e le trasmissioni non si sono mai interrotte. La sede era in questa stradina, Saed Al Aàs nel quartiere Nasser, prima di essere sventrata da sette missili sparati nella notte in rapida successione, deflagrazioni che hanno frantumato vetri e detriti di tutte le abitazioni nel raggio di mezzo chilometro.
Proprio di fronte alla palazzina di Al Aqsa in un cubo di blocchetti di cemento senza intonaco vivono i Beltaji, un clan di 36 persone, quattro fratelli con le loro famiglie e la vecchia mamma ultraottantenne, forniture
elettriche e riparazioni erano il business di famiglia, portato avanti con un piccolo negozio del quale da dieci giorni non è rimasto più nulla. Sami, il più anziano dei fratelli riassume così il loro dramma: «Sappiamo perfettamente il pericolo che corriamo a restare qui dentro casa, vicino posti che sono considerati obiettivi dagli israeliani ma non abbiamo alternative». «Fra l’altro», dice mostrando il cellulare spento, «non abbiamo elettricità
né acqua da una settimana, siamo più di trenta persone e non è facile trovare un’alternativa, da una settimana tutte le mattine facciamo il giro delle scuole dell’Unrwa che possiamo raggiungere a piedi perché una delle auto che ha visto distrutte di fuori era il nostro furgoncino, ma non c’è più posto nemmeno nei cortili».
«Pensa che con venti tra ragazzi e ragazzini di varia età saremmo restati qui se ci fosse un’alternativa?», incalza Rami l’altro fratello, «abbiamo deciso di restare perché non possiamo vagare da una parte all’altra sotto le bombe, e poi alla fine nemmeno le scuole dell’Unrwa sembrano più tanto sicure, se dobbiamo morire almeno moriamo a casa nostra». Le previsioni della famiglia Beltaji, non hanno un orizzonte che vada oltre le 24 ore. «Siamo isolati dal mondo, non abbiamo corrente, quindi il frigo non funziona, e la mattina a turno si esce di casa e si cerca di comprare lo stretto necessario per la giornata, con questo caldo non si mantiene niente e anche il pane, il giorno dopo è duro come un sasso», spiega ancora Sami mentre sale una rampa di scale per mostrare sul tetto il bidone dell’acqua ridotto a un colabrodo. «Ecco questo», dice indicando il grande contenitore di plastica nero, «è il nostro vero problema, siamo costretti a comprare l’acqua in bottiglia ogni giorno, una a testa: una tazza per lavarci solo il viso, il resto da bere durante la giornata».
La notte a casa Beltaji sembra sempre interminabile. «Le bombe arrivano da ogni parte, i ragazzi hanno paura, le donne hanno paura, noi abbiamo paura », ammette Sami. «Lo vede ci rifugiamo tutti in quell’angolo, dove ho tirato su un’altra fila di blocchetti di cemento, ci sediamo tutti in terra e mettiamo la testa tra le gambe». Ma sa benissimo anche lui che la potenza di fuoco che arriva dagli aerei, dalle navi e dai droni israeliani è in grado di polverizzare quel disperato rinforzo del muro in un attimo. «Ho detto a tutti che quel rinforzo resisterà, sono il capofamiglia. E’ una bugia necessaria, se non dovesse resistere, moriremo tutti e nessuno mi potrà dire “ci hai mentito”».



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