Il trapasso dell’egemonia mondiale

Il trapasso dell’egemonia mondiale

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Non c’è che dire: papa Ber­go­glio gode di un lungo momento di gra­zia nell’opinione pub­blica mon­diale. Ogni cosa che dice diventa di rife­ri­mento anche in ambito non con­fes­sio­nale. Ne sia esem­pio la sua recente dichia­ra­zione sull’esistenza nel mondo con­tem­po­ra­neo di una terza guerra mon­diale «a pez­zetti». Il Papa non è un ana­li­sta poli­tico e quindi non si può pre­ten­dere da lui l’esattezza della defi­ni­zione, ma è un fatto che essa ha sfon­dato anche nel campo della sini­stra che pensa di inter­pre­tare così le varie guerre guer­reg­giate san­gui­no­sa­mente in corso, dall’Ucraina al MedioO­riente. D’altro canto, vista la man­canza di pro­fon­dità nella ricerca ana­li­tica e di pen­sieri lun­ghi nel campo della sini­stra non deve stu­pire né infa­sti­dire que­sta sup­plenza pontificia.

Resta da doman­darsi se le cose stanno pro­prio così. Se il papa «ci ha preso» oppure no. Pro­pen­de­rei, con tutto il rispetto e — per­ché no, anche ammi­ra­zione -, per il no. Per quanto mol­te­plici siano i con­flitti in corso, non credo che si possa par­lare di una terza guerra mon­diale sep­pure a mac­chia di leo­pardo e a bassa inten­sità. Siamo piut­to­sto di fronte – ma ogni defi­ni­zione è per neces­sità, come diceva il grande filo­sofo, una limi­ta­zione – a una guerra civile pro­lun­gata senza fron­tiere, ove entrano in gioco una mol­te­pli­cità di sog­getti dai con­torni imprecisi.

Per spie­garmi devo ripren­dere per sommi capi un punto che ritengo cru­ciale nell’analisi della crisi eco­no­mica tutt’ora in corso – per l’Europa molto peg­giore di quella degli anni Trenta – e che viene però o sot­ta­ciuto o negato. La crisi è tra­sfor­ma­zione, non crollo. Anzi una grande tra­sfor­ma­zione, per para­fra­sare Pola­nyi. Que­sta crisi si col­loca e rimarca l’avvento di una grande tran­si­zione ege­mo­nica mon­diale, ove il bari­cen­tro del potere, eco­no­mico in primo luogo, si spo­sta da ovest ad est, dall’Atlantico al Paci­fico. Non è la prima volta che nella sto­ria dell’umanità avven­gono pas­saggi così cru­ciali, come ci ha inse­gnato Fer­nand Brau­del e la sua scuola. Que­sto è uno di quelli.

In que­sta crisi è matu­rato il sor­passo nel pri­mato mon­diale delle nazioni tra la Cina e gli Stati Uniti d’America. Qual­che dato snoc­cio­lato in breve aiuta a valu­tare la por­tata del feno­meno. Tra il 2000 e il 2008, il com­mer­cio inter­na­zio­nale della Cina è qua­dru­pli­cato. Le espor­ta­zioni sono aumen­tate del 474 per cento e del 403 per cento delle sue impor­ta­zioni. Al con­tra­rio, gli Stati Uniti hanno perso la loro posi­zione di prima potenza com­mer­ciale del mondo, una lea­der­ship che dete­ne­vano da un secolo. Prima della crisi finan­zia­ria del 2008, gli Stati Uniti erano il prin­ci­pale part­ner com­mer­ciale di 127 paesi nel mondo, la Cina lo era solo per un po’ meno di 70 paesi. Oggi, Pechino è diven­tata il prin­ci­pale part­ner com­mer­ciale di 124 stati, men­tre Washing­ton lo è solo di circa 70 paesi. Su que­sta base la Cina pensa di potere imporre prima o poi la pro­pria moneta quale rife­ri­mento per le tran­sa­zioni inter­na­zio­nali scal­zando defi­ni­ti­va­mente il pri­mato del dollaro.

D’altro canto non vi è dub­bio che la Cina ha saputo rea­gire prima e meglio agli effetti della crisi mon­diale. Lo ha fatto in virtù di un sistema for­te­mente cen­tra­liz­zato che attua un fermo con­trollo sui movi­menti dei capi­tali. Non man­cano, anzi sono in cre­scita, le ten­sioni e i con­flitti sociali nell’universo cinese, ma anche le immi­nenti cele­bra­zioni di Deng Xiao­ping — con una mega­pro­du­zione tele­vi­siva tale da fare impal­li­dire i tor­men­toni ame­ri­cani – sem­brano con­fi­gu­rare l’era comu­ni­sta come una paren­tesi frut­tuosa tra una società ancora lar­ga­mente pre­ca­pi­ta­li­sta e una a capi­ta­li­smo svi­lup­pato pro­iet­tata nella glo­ba­liz­za­zione con e gra­zie a un forte inter­vento e con­trollo sta­tali. In più, la Cina ha saputo muo­versi sullo scac­chiere mon­diale con un’attenzione par­ti­co­lare ai grandi fat­tori eco­no­mici che pos­sono cam­biare d’un colpo solo la geoe­co­no­mia e la geo­po­li­tica del globo ter­re­stre. Non mi rife­ri­sco sol­tanto alla pre­veg­gente pene­tra­zione cinese in Africa, ma anche al recente accordo con la Rus­sia sulle for­ni­ture di gas e al pro­getto con gli altri Brics di dare vita ad una sorta di banca mon­diale alter­na­tiva a quella attuale.

Il ruolo migliore che la pre­si­denza Obama poteva assu­mersi di fronte alla sto­ria per non lasciare un cat­tivo ricordo di sé, era quello di fare in modo che que­sto ine­vi­ta­bile tra­passo di pri­mato avve­nisse nel modo più paci­fico pos­si­bile. Natu­ral­mente era una spe­ranza assai fra­gile e gli avve­ni­menti suc­ces­sivi l’hanno facil­mente contraddetta.

Sul piano geoe­co­no­mico e geo­po­li­tico gli Usa si muo­vono con deci­sione ten­tando di con­te­nere la Cina e i Brics attra­verso accordi cape­stro eco­no­mico com­mer­ciali, fra cui il fami­ge­rato TTIP, che riguarda diret­ta­mente l’Europa; il TPA (trans paci­fic agree­ment) che però il Giap­pone mostra di non gra­dire; il meno noto TISA (trade in ser­vi­ces agree­ment). Gli ultimi due sono in diretta fun­zione anti­ci­nese e anti­Brics, il primo cerca di togliere sul nascere all’Europa ogni illu­sione di potere gio­care un ruolo auto­nomo in que­sto pro­cesso di tran­si­zione ege­mo­nica mondiale.

Gli Usa hanno perso il pri­mato eco­no­mico ma non certo quello mili­tare. Sono teo­ri­ca­mente in grado di vin­cere qua­lun­que guerra ma non più di soste­nerla eco­no­mi­ca­mente. E di guerre lampo non se ne sono viste, tranne che nella sce­neg­giata di Granada.

La dif­fe­renza con il pas­sato non è pic­cola. Anche con quello recente della guerra pre­ven­tiva e infi­nita dei Bush e dei Clin­ton rac­co­man­data da Robert Kagan.

Ecco allora che gli stra­te­ghi sta­tu­ni­tensi rovi­stano nel pas­sato. Nell’autorevole Foreign Affairs di luglio/agosto 2014, Jack Divine – 32 anni nella Cia – annota che: «L’esperienza degli USA in Cile nei primi anni ’70 ha offerto una serie di lezioni su come por­tare avanti buone azioni segrete e su come evi­tarne di cat­tive. Alcune di que­ste lezioni sono state impa­rate, ma troppe di que­ste no». Quindi, con­ti­nua Divine, gli Usa si lasciano alle spalle le grandi azioni mili­tari in Afgha­ni­stan e Iraq ed entrano in un nuovo periodo «nel quale le azioni segrete diven­te­ranno dav­vero cru­ciali in luo­ghi come Iran, Paki­stan, Syria e Ucraina». Appunto.

La tran­si­zione ege­mo­nica mon­diale e la resi­stenza ad essa degli Usa ren­dono quindi più insta­bili le con­di­zioni dei paesi di con­fine fra Est e Ovest: in Europa, un tempo i Bal­cani, oggi l’Ucraina; nel Medio Oriente tutti i paesi, nes­suno escluso.
Gli altri non stanno a guar­dare. Non la Rus­sia di Putin, né tan­to­meno le forze che hanno fatto del fana­ti­smo reli­gioso isla­mico la loro forza ege­mo­nica. Ognuno cerca di ripo­si­zio­narsi in que­sto tra­passo mon­diale, ridi­se­gnando i con­fini geo­gra­fici di intere zone del mondo, ove è più fun­zio­nale la guerra civile poten­ziata e forag­giata che non la clas­sica inva­sione militare.

Le con­trad­di­zioni inte­rim­pe­ria­li­sti­che – si sarebbe detto un tempo – si risve­gliano in nuove forme. Il Calif­fato oggi è que­sto: non solo ter­ro­ri­smo dif­fuso ma sof­fo­ca­mento delle istanze liber­ta­rie, pro­gres­si­ste e anche lai­che che erano pre­senti nelle pri­ma­vere arabe, in par­ti­co­lare tra le donne ed i gio­vani, come nella resi­stenza pale­sti­nese, per la costru­zione di un nuovo stato nel nome della rea­zione più pura e brutale.


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