Black no power. Se l’America di Obama si riscopre razzista

Black no power. Se l’America di Obama si riscopre razzista

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I VOLANTINI del Ku Klux Klan hanno l’immagine di un nero con la capigliatura leonina alla Jimi Hendrix, che minaccia: «Voglio la tua casa, voglio la tua nazione». Sono apparsi all’improvviso in un luogo improbabile: agli Hamptons, la Portofino dei newyorchesi ricchi. Tra le ville miliardarie che si affacciano sul quell’angolo tranquillo di Long Island, di afroamericani se ne vedono pochi. E l’alta borghesia che ha fatto i soldi a Wall Street spesso è di larghe vedute sul tema razziale, a suo tempo non esitò a finanziare anche la campagna di Barack Obama. È la prima volta che arriva in quest’angolo d’America una campagna di proselitismo del famigerato Kkk, l’organizzazione della supremazia bianca, che nel profondo Sud fece una guerra spietata contro i diritti civili, a colpi di linciaggi e impiccagioni di neri. Tutti hanno collegato questa “incursione” al Nordest del Kkk con i fatti di Ferguson: la cittadina del Missouri dove il 9 agosto un agente bianco ha crivellato un 18enne nero disarmato, Micahel Brown, scatenando settimane di proteste. Sul fronte opposto, il partito democratico spera a
modo suo di sfruttare un “effetto- Ferguson”: rilanciando una campagna di sensibilizzazione perché gli afroamericani vadano a votare alle legislative di novembre, l’ultima speranza per scongiurare il trionfo della destra. Stando ai sondaggi attuali i repubblicani possono conquistare anche la maggioranza al Senato, oltre alla Camera. Una “mobilitazione razziale”, facendo risalire l’affluenza alle urne dell’elettorato nero tradizionalmente democratico, sarà la carta decisiva? Comunque la si guardi, è la conferma che la “questione nera” è tutt’altro che superata, nell’America di Obama. Da quando è entrato alla Casa Bianca il primo presidente afroamericano, diversi incidenti glielo hanno ricordato. Nel luglio 2009 Obama aveva reagito all’arresto di un noto professore nero di Harvard, Henry Louis Gates, ammanettato davanti a casa sua perché scambiato per un ladro; e da destra si era levato un coro di condanne contro il presidente reo di avere criticato la polizia. Nel febbraio 2012 un altro caso aveva infiammato gli animi: l’uccisione del 17enne afroamericano Trayvon Martin da parte di un vigilante con dei precedenti violenti, poi assolto da una giuria popolare di bianchi. «Trayvon Martin avrei potuto essere io, 35 anni fa», commentò Obama. Il presidente ha ricordato l’umiliazione di vedere una donna bianca che stringe nervosamente la propria borsa quando si trova in ascensore con un nero (lui). Il suo ministro della Giustizia, l’afroamericano Eric Holder, ha raccontato di essere stato più volte fermato dalla polizia solo perché “nero al volante”, quando era già un alto magistrato a Washington. Ma sul fronte opposto, senza arrivare fino agli estremi di odio razzista del Kkk, l’opinione pubblica bianca denuncia il “vittimismo” della comunità afroamericana, e difende i “controlli selettivi” della polizia, puntando l’indice sull’alto tasso di delinquenza tra i giovani neri. Non è sfuggito ai media il fatto che la probabile candidata alla successione di Obama, Hillary Clinton, ha atteso ben dieci giorni prima di prendere una posizione pubblica sulla tragedia di Ferguson, e ha soppesato le sue parole col bilancino, per non scontentare nessuno. Tutti i sondaggi post Ferguson restituiscono l’immagine di un’America più spaccata che mai sulla questione razziale.
Dal Pew Research center alle indagini demoscopiche commissionate da Bloomberg, New York Times, Cbs, i risultati sono netti. Il 65% degli afroamericani condanna il comportamento della polizia a Ferguson, contro il 33% dei bianchi. Sull’esito delle indagini giudiziarie, che devono accertare l’eventuale colpevolezza dell’agente Darren Wilson che uccise Michael Brown, il 60% dei bianchi è convinto che saranno condotte in modo equo; il 60% dei neri non ha nessuna fiducia che l’inchiesta sia imparziale.
Se possibile, il clima è perfino peggiorato negli anni di Obama. O quantomeno, è durata poco, l’illusione che la sua ascesa alla Casa Bianca segnasse il superamento delle spaccature e l’avvento di un’America postrazziale. Subito dopo la sua vittoria elettorale del novembre 2008 un sondaggio indicò che soltanto il 30% dei neri e il 21% dei bianchi consideravano “ostili” le relazioni tra le due comunità. Oggi quelle percentuali sono raddoppiate. Lo stesso Obama ha finito per diventare un catalizzatore di tensioni, una figura controversa. La sua
sola presenza alla Casa Bianca ha fatto riemergere dalle viscere dell’America profonda un razzismo latente: il Tea Party, movimento anti-tasse e anti-Stato, ha una base per il 98% di bianchi. In quel mondo ha allignato la leggenda di un Obama musulmano e “nato in Africa”, quindi ineleggibile: totalmente falsa, e tuttavia una metafora venuta dal subconscio, dalla necessità di considerare “alieno” un afroamericano. In quanto ai suoi, da Jesse Jackson a Spike Lee non sono mancate le accuse al presidente per non essere abbastanza combattivo in difesa dei neri.
Ma contro Obama ci sono poderose tendenze legate alla dinamica economica. È lì che si trovano le maggiori fonti di tensione razziale. Nicholas Kristof sul New York Times riassume uno studio fatto ad Harvard, secondo cui l’America di oggi dal punto di vista socio-economico è in una situazione peggiore del Sudafrica all’epoca dell’appartheid. Il patrimonio medio di una famiglia bianca (110.000 dollari) è 18 volte il valore dei risparmi di una famiglia nera (seimila dollari), mentre nel Sudafrica del 1970 la disparità era “solo” un multiplo di 15. La crisi economica ha ricacciato indietro gli afroamericani: il divario di reddito tra neri e bianchi è 40% più ampio oggi rispetto al 1967. Un bambino nero che nasce oggi negli Stati Uniti ha una speranza di vita media più corta di 5 anni rispetto ad un suo coetaneo bianco. La piaga della criminalità, e la risposta “militare” data da decenni a questa parte, aggrava il problema: un maschio nero ventenne oggi ha più probabilità di essere in carcere che di avere un posto di lavoro.



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