«Possibili truppe di terra» Il Pentagono ora considera l’escalation contro l’Isis

«Possibili truppe di terra» Il Pentagono ora considera l’escalation contro l’Isis

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NEW YORK — «Generale, veramente pensa che i ribelli siriani moderati che verranno addestrati dagli Usa possano attaccare l’Isis e non il dittatore Assad che li ha massacrati? Se è così, non avete capito nulla del Free Syrian Army e dei suoi obiettivi». Questo affondo del senatore repubblicano John McCain ieri al Congresso, durante l’audizione del capo del Pentagono, Chuck Hagel, e del capo di Stato maggiore, Martin Dempsey, rende bene lo scetticismo del Parlamento sul piano messo in campo da Barack Obama. Ma dà anche l’idea della complessità dello scenario che gli Stati Uniti devono fronteggiare in Medio Oriente. Dove, per battere un «califfato» ormai molto esteso senza mettere in campo truppe Usa, serve l’impegno di sunniti, sciiti e, probabilmente, anche del regime-canaglia di Damasco.
Ma Dempsey, che non è per niente uno sprovveduto, non si è fatto chiudere in un angolo. Pur sostenendo di avere grande fiducia nella coalizione internazionale che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato stanno cercando di costruire, ha ammesso che le cose potrebbero anche mettersi male con l’Isis, fino a rendere necessario l’impiego di soldati americani sul campo di battaglia, nonostante la promessa di Obama di non mettere «boots on the ground». Una presa di distanze? No, dice il generale. Per ora la coalizione va bene ma, se sarà necessario, «suggerirò al presidente di cambiare rotta. Lui non vuole truppe Usa in battaglia, ma mi ha anche detto di tornare da lui per affrontare, caso per caso, le situazioni nuove che si presenteranno». La risposta della Casa Bianca non si è fatta attendere: «Il presidente Obama non intende dispiegare truppe di terra in Iraq o in Siria», ha subito replicato il portavoce Josh Earnest.
Dall’audizione davanti alla Commissione forze armate del Congresso esce un panorama più chiaro, anche se non necessariamente più tranquillizzante, della situazione sul campo. In Iraq, dove è appena nato un nuovo governo che vorrebbe essere di unità nazionale, gli americani si appoggeranno soprattutto sui successori di al-Maliki, sperando che siano meno settari del vecchio premier sciita. Ma quanto è affidabile l’esercito di Bagdad? Dempsey non ha nascosto le difficoltà: «Delle sue 50 brigate, 26 sono abbastanza multietniche e sembrano relativamente affidabili. Le altre 24, invece, sono settarie e piene d’infiltrazioni: l’appoggio che potrà vanire da qui è molto limitato». È per questo che gli Usa intendono appoggiarsi molto anche sui peshmerga, i guerriglieri curdi, e sulle tribù sunnite che a suo tempo aiutarono gli americani a sconfiggere Al Qaeda.
Ma il cuore del problema Isis è in Siria dove lo Stato terrorista ha i suoi santuari e dove, con Occidente e Paesi arabi sunniti che non possono di certo riarmare Assad, manca un interlocutore forte sul piano militare. La Casa Bianca ha chiesto al Congresso mezzo miliardo di dollari per addestrare, armare e rifornire per un anno 5.400 combattenti del Freedom Army. Meno della metà di quelli che, secondo gli strateghi, sarebbero necessari per contrastare l’esercito dell’Isis. E quello che riceveranno all’inizio sono armi e veicoli leggeri. Ma è comunque un inizio significativo.
McCain non ha però faticato a far emergere la debolezza di un piano Usa che non solo prevede un intervento diretto solo attraverso gli attacchi aerei ma che, nel tentativo di costruire una coalizione per battere l’Isis sul terreno, è costretto a cercare di mettere insieme forze molto eterogenee e, spesso, avversarie. Il senatore chiede a bruciapelo a Hagel: «Ma se i combattenti addestrati da noi verranno attaccati, oltre che dall’Isis, anche dall’esercito di Damasco, bombarderete anche Assad?». Il capo del Pentagono cerca di svicolare («per formare una grande coalizione bisogna trovare soluzioni di compromesso») prima di ammettere che «sì, difenderemo i ribelli addestrati da noi da tutti gli attacchi». Arriva in soccorso Dempsey, spiegando che i ribelli opereranno nell’ambito di un piano strategico che è quello dell’attacco all’Isis. Ma è qui che il senatore dell’Arizona lo accusa di non sapere chi ha davanti: «Un popolo che ha subito perdite inferte dall’Isis ma è stato letteralmente sterminato da Assad, quasi 200 mila morti. Credete veramente che non cercheranno rivincite con Damasco?».
Alla fine fatti più chiari e nessuna facile illusione.
Massimo Gaggi



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