Cerati, le lettere come officina: l’Einaudi dell’«umile venditore»

Cerati, le lettere come officina: l’Einaudi dell’«umile venditore»

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Diceva di essere soltanto un umile venditore di libri, Roberto Cerati. È morto proprio un anno fa, il 22 novembre, nella sua casa di Milano, vicino alla chiesa di San Marco. Aveva sopportato per mesi, con il coraggio della naturalezza, un terribile male.
Altro che «umile venditore di libri». Per Giulio Einaudi era il gran consigliere segreto, un capo di stato maggiore. Era anche un monaco, un missionario, un meteorologo culturale, un ambasciatore, un portatore di doni e anche un inquisitore alla ricerca della verità, un vietcong, con le sue giacchette e i suoi giubbetti neri e blu chiusi fino al collo. Era soprattutto un grande intellettuale.
Nell’occasione esce, da Einaudi, un libriccino firmato Roberto Cerati, Lettere a Giulio Einaudi e alla casa editrice (1946-1979) , a cura di Mauro Bersani, «2.000 copie non venali delle quali 1.000 numerate». Proprio Cerati le inviava agli amici quelle edizioncine eleganti di cartoncino grigio che gli stavano a cuore, tra le altre Il carteggio Einaudi-Montale per le «Occasioni» , le Lettere all’editore di Gianfranco Contini, la Lezione magistrale di Giulio Einaudi all’Università di Torino che il 14 ottobre 1998 conferì all’editore la laurea honoris causa in Lettere: quel giorno Roberto Cerati comparve nell’aula di via Po vestito con giacca e cravatta e sembrava un ufficiale di carriera in borghese a disagio, dismessa la divisa.
È un libro molto bello questo epistolario che Mauro Bersani ha curato con somma attenzione, corredato da note preziose: trentun lettere all’editore, qualche lettera ad altri, Renato Solmi, Luciano Foà, Guido Davico Bonino, Italo Calvino, Giulio Bollati, Alessandro Bacci. È un libro del mondo di ieri che immalinconisce perché obbliga il lettore a un confronto continuo tra quel passato e la caduta culturale di oggi: il degrado di gran parte dell’editoria, omologata e omologante, all’ossessiva ricerca dei bestseller, che stampa libri, chissà perché e li abbandona alla ventura. Ben vengano i bestseller, scrive Cerati, casuali, febbrili, ma non siano l’unica ragione di esistere, non soffochino la normalità del progetto editoriale. Non esistono soltanto i grandi numeri.
È un calderone ardente questo epistolario senza risposte di Roberto Cerati. Consiglia, giudica, propone («Lei non farebbe la Rivoluzione liberale di Gobetti?»), spiega, racconta — le prenotazioni, le ristampe —, critica, scrive di quel che non va, parla dei premi letterari, lo Strega, il Viareggio, delle vetrine di Natale, degli amati venditori della Einaudi, degli altri editori, la Feltrinelli che dopo i grandi successi dell’esordio perde colpi — «il successo insuperbisce» —, scrive del mite e colto Luciano Foà, dei primi libri, nel 1963, della neonata Adelphi, «abbastanza belli»: rammentano, con una variante tedesca, la Biblioteca Romantica di Mondadori, diretta, negli anni Trenta, da G.A. Borgese. Parla senza tregua delle collane di casa, i Millenni, i Supercoralli, i Saggi rossi, gli Struzzi, i Classici.
Sa scrivere, con chiarezza e con grazia. A Giulio Einaudi, a differenza di quasi tutti i collaboratori, dà sempre del lei, lo chiama Egregio Dottore, termina le lettere con i suoi ossequi. Non è mai noioso, è spiritoso, come quando racconta, mimetico nel linguaggio, di un suo incontro con Elsa Morante. Esorta Einaudi ad andare in Spagna a parlare con la sorella di García Lorca per assicurarsi le Poesie . Ci va lui, avventurosamente, tra Malaga, Madrid e Meco. Incontra il fratello e la sorella del poeta, ma l’operazione non va in porto. Ne scrive amareggiato all’editore in un taccuino di viaggio. Termina così: «Tutto qui. Poco. Molto poco, con il rammarico di aver distolto del tempo dal lavoro e di aver speso dei soldi». Si sente in colpa. Quella volta si lascia andare: «Mi voglia scusare tanto. Suo affmo Cerati».
Chi è Roberto Cerati. Nasce a Cressa, nel Novarese, si laurea in Lettere con una tesi su Pirandello, il professore è Mario Apollonio, uno dei dimenticati fondatori del Piccolo Teatro. Approda giovane al «Politecnico» di Vittorini, strillone in piazza del Duomo a Milano di quel settimanale edito da Einaudi. Il passo è breve, arriva presto a Torino, in via Biancamano dove lavorerà per tutta la vita, fedele a Giulio Einaudi anche dopo la morte dell’editore, nel 1999, quando diventa lui il presidente. Lo sente come un dovere. Non fa il presidente di paglia. È sempre presente, discute, battaglia, non molla mai, ha idiosincrasie manifeste. È un mondo inconciliabile quello di Berlusconi che nel 1994 ha comprato la casa editrice. Ha qualche momento di sconforto, Roberto. Una volta confessa a un amico di sentirsi un po’ come Benigni, un altro Roberto, che nel suo film Tu mi turbi fa la guardia all’altare della Patria. Ma la Patria amata — i suoi principi — non esiste più o quasi.
Alle famose riunioni del mercoledì, degli anni Settanta-Ottanta, nella sala della biblioteca, con i libri einaudiani negli scaffali a vetri e le fotografie di Nadar — Victor Hugo, George Sand, Baudelaire — appese a un muro, Cerati sedeva nascosto vicino alla porta sul fondo e non diceva mai una parola. Ascoltava: Giulio Einaudi con Calvino alla sua destra, Bollati che dirigeva i lavori, e gli altri disseminati, Mila, Bobbio, Franco Venturi, Spriano, Gallino, Baranelli Ciafaloni, Consolo, Natalia Ginzburg, Davico Bonino, Magris, Ernesto Ferrero, Cesare Segre, altri.
La parola, Roberto Cerati la riprendeva il giovedì mattina quando si ritrovava con Giulio Einaudi, Giulio Bollati e Oreste Molina, il direttore tecnico, e diceva la sua, in quella suprema corte di cassazione che giudicava e spesso annullava (senza rinvio) le decisioni del giorno prima.
Il venerdì Cerati ridiventava «l’umile venditore»: «Sto rastrellando Milano libreria per libreria». Morirai sulla soglia di qualche bottega di libri, gli dicevano gli amici. Andava a vedere, controllava le collane, captava gli umori, raccoglieva le notizie.
Comunista anomalo, amava la merce della cultura. La sua è stata una lezione di grande editoria. In una lettera a Giulio parla di «questo gran divertimento che è la vendita». Il catalogo era la sua stella polare. «Un venditore Einaudi deve restare un venditore di catalogo, che rifornisce Saggi e Storica, Pbe e Nue per passare poi sul terreno scontato dei Coralli e dei Supercoralli».
L’Einaudi è, dal 1933, l’architrave della cultura progressista del Paese. Cerati, più di tutti quelli che sentirono il fascino dello Struzzo — scrittori, redattori, venditori, librai, lettori — ha l’orgoglio dell’appartenenza. Einaudi ascolta o lascia perdere, ma la sua stima è profonda per quell’uomo che non gli chiede mai nulla, colto e inquieto, che crede in quel che fa: «Io voglio essere della generazione di quelli che attizzano e per questo amo i giovani», gli scrive. Dalle lettere del piccolo libro si capisce anche com’è falsa l’immagine dell’editore, principe capriccioso. Spesso soltanto una maschera.
Per Roberto Cerati, Giulio era il padre. I libri erano i figli.



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