Libero dopo 39 anni nel braccio della morte

Libero dopo 39 anni nel braccio della morte

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Per una volta si può final­mente par­lare e scri­vere di pena capi­tale senza l’angoscia di dover rac­con­tare l’ultima cam­mi­nata dell’ennesimo dead man wal­king di turno. Si tratta della vicenda dell’afroamericano Ricky Jack­son che, con­dan­nato all’età di appena 18 anni, vide la sua vita pre­ci­pi­tare in un buco di cemento e acciaio di un metro e mezzo per tre, nell’abisso senza ritorno del brac­cio della morte dell’Ohio.

Difeso da uno dei soliti avvo­cati d’ufficio e giu­di­cato in maniera sbri­ga­tiva nell’ennesimo «pro­cesso farsa» che tocca imman­ca­bil­mente a mino­ranze, pove­racci e dise­re­dati d’ogni sorta, Jack­son finì negli ingra­naggi del brac­cio della morte gra­zie alla falsa testi­mo­nianza del dodi­cenne Eddie Ver­non. Lo stesso Ver­non, recen­te­mente, ha però ritrat­tato, ammet­tendo d’aver inca­strato Jack­son senza aver mai real­mente assi­stito all’omicidio di Harold Franks, con­su­ma­tosi nel 1975 a Cle­ve­land. Il teste chiave della vicenda, ora 53enne, ha infatti con­fes­sato d’aver men­tito, ini­zial­mente per com­pia­cere le auto­rità, poi in seguito ha con­ti­nuato a men­tire per evi­tare una denun­cia per spergiuro.

Le impu­ta­zioni furono ter­ri­bili, Jack­son venne accu­sato, assieme ad altri due «com­plici», di aver pestato a morte e sciolto nell’acido la vit­tima, ma l’unica testi­mo­nianza, che pur­troppo per­mise di sbat­tere un inno­cente in cella con una con­danna alla pena capi­tale, è ora final­mente crol­lata. Nel castello accu­sa­to­rio a carico di Jack­son, oltre quella testi­mo­nianza, non sono mai emersi né fatti, né testi­mo­nianze, né prove che coin­vol­ges­sero gli accu­sati. Quindi adesso, oltre alla posi­zione legale di Jack­son, saranno rivi­sti anche i casi degli altri due accu­sati per l’omicidio di Franks, cioè Ron­nie e Wiley Brid­ge­man e pro­ba­bil­mente ver­ranno isti­tuiti nuovi processi.

Da quando la pena di morte nell’Ohio è stata tem­po­ra­nea­mente sospesa, in seguito ad alcune ese­cu­zioni capi­tali mal­riu­scite, come quella del 53enne Den­nis McGuire, che spirò davanti ai suoi figli dopo un’orribile ago­nia di 15 minuti dovuta alla spe­ri­men­ta­zione di far­maci mai pro­vati prima, la con­danna per Jack­son è stata com­mu­tata in erga­stolo. Nono­stante ciò, a Jack­son è spet­tato comun­que il tri­ste pri­mato di essere il con­dan­nato a morte rima­sto pri­gio­niero più a lungo in tutta la sto­ria del sistema giu­di­zia­rio sta­tu­ni­tense, cioè ben 39 anni.

Lunedì 24 novem­bre è stato un giorno che sem­brava non dovesse mai arri­vare, quello in cui si sono final­mente aperte le porte del car­cere per Ricky Jack­son. Durante l’udienza che aveva pre­ce­duto la libe­ra­zione, il pro­cu­ra­tore Timo­thy McGinty aveva dichia­rato che «lo Stato era pronto a inchi­narsi» di fronte all’evidenza dell’innocenza di Jackson.

Pur­troppo però uno Stato così pronto a «inchi­narsi» e ad ammet­tere i pro­pri errori non è altret­tanto solerte nel risar­cire ade­gua­ta­mente coloro che ha ingiu­sta­mente con­dan­nato e depri­vato di ogni libertà, di ogni dignità e della loro stessa vita.

Secondo il «Cen­tro di infor­ma­zione sulla pena di morte», dal 1973 ad oggi, Jack­son sarebbe ormai la 148esima per­sona a essere rite­nuta inno­cente dopo la con­danna, non­ché la quinta solo nel corso di quest’anno; ma del destino che tocca que­sti esseri umani poco si dice e si sa: una volta «liberi», gli ex abi­tanti dei mat­ta­toi di Stato hanno dovuto fare i conti con matri­moni distrutti, discri­mi­na­zioni nel mondo del lavoro, sospetti da parte dei vicini di casa. Per non par­lare del trauma emo­tivo che si por­te­ranno den­tro per tutto il resto delle loro vite.

Molti ex dete­nuti, infatti, hanno grandi dif­fi­coltà per­sino a com­piere gesti appa­ren­te­mente sem­plici come, ad esem­pio, aprire una porta, per­ché per decenni c’è stato qual­cuno che lo ha fatto per loro. La cosa para­dos­sale è che molti Stati hanno speso milioni di dol­lari per far con­dan­nare a morte degli inno­centi, i quali, una volta libe­rati, hanno potuto bene­fi­ciare solo del ridi­colo rim­borso di 200 dol­lari, cioè la somma pre­vi­sta per tutti i dete­nuti al momento del rila­scio.
L’unico risar­ci­mento degno di nota toccò a Peter Limone, un ex con­dan­nato a morte che dopo 33 anni pas­sati nel brac­cio denun­ciò e riu­scì a far con­dan­nare da un tri­bu­nale di Boston nien­te­di­meno che l’Fbi, costrin­gen­dola a sbor­sare la cifra record di 102 milioni di dollari.

La vicenda di Jack­son si aggiunge ad altri casi emble­ma­tici che hanno segnato posi­ti­va­mente, almeno negli esiti finali, molte vicende giu­di­zia­rie sta­tu­ni­tensi, come quella del pugile nero Rubin Car­ter, alias Hur­ri­cane, per il quale si cele­bra­rono can­zoni, libri e film. O quella di Anthony Gra­ves, libe­rato dopo aver pas­sato 18 anni nel fami­ge­rato brac­cio della morte di Living­ston, in Texas, gra­zie all’impegno pro­fuso dall’insegnante Nicole Casa­rez e dai suoi stu­denti di giornalismo.

Più dura invece si fa per quei dete­nuti che sono anche pri­gio­nieri poli­tici ed emblemi di popoli discri­mi­nati e repressi, come Mumia Abu Jamal e Leo­nard Pel­tier, cioè un afroa­me­ri­cano e un nativo ame­ri­cano: mal­grado decenni di pro­te­ste e mobi­li­ta­zioni pla­ne­ta­rie, pur­troppo molto dif­fi­cil­mente rive­dranno la libertà, a meno che non ven­gano can­di­dati e pre­miati con un Nobel per la pace.

Nel frat­tempo, per fare qual­cosa di con­creto, utile ed effi­cace, le Nazioni unite potreb­bero invece assu­mere e tra­sfor­mare in testi­mo­nial glo­bali sia Ricky Jack­son che tutti gli ex con­dan­nati che lo vogliono: chi meglio di loro potrebbe rac­con­tare cos’è, dav­vero, la pena di morte?



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