Minacce e droni, i timori per il Papa

Minacce e droni, i timori per il Papa

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Nell’agosto del 2014, di ritorno dal suo viaggio in Corea del Sud, papa Francesco voleva fare tappa in Kurdistan, un’area incorniciata tra Siria, Turchia, Iraq e Iran. Aveva intenzione di lanciare anche da lì il suo appello a favore dei cristiani del Medio Oriente massacrati dai fondamentalisti islamici. Ma i servizi segreti lo hanno fermato, elencandogli i pericoli che il cambio di programma avrebbe rappresentato. L’episodio riaffiora in questo autunno inoltrato, mentre i timori sulla sua sicurezza si sono impercettibilmente impennati. Forse è solo un riflesso del disorientamento psicologico, oltre che geopolitico, dell’Occidente. Sono i filmati degli ostaggi decapitati dai macellai dell’Isis, lo Stato islamico che ormai sta superando in crudeltà Al Qaeda; e che, oltre a fare proseliti in Europa, alimenta i timori di un attacco contro il Pontefice che ha unito in preghiera cattolici, ebrei, musulmani e ortodossi.

Così, ai fantasmi dell’attentato del turco Ali Agca contro Giovanni Paolo II nel maggio del 1981 proprio in piazza San Pietro, tra la folla, si somma lo spettro di un’azione eversiva del fondamentalismo islamico. Il dubbio che possa accadere qualcosa aleggia da quando è diventato Papa. La scelta di vivere a Casa Santa Marta, altamente simbolica, rappresenta un’incognita. È un albergo, per quanto unico, e dunque riceve dall’esterno forniture di pasta, pane, carne, si fa notare. È un piccolo porto di mare, per quanto super-controllato, separato dall’Italia solo dalle mura che danno su via di Porta Cavalleggeri. E dunque, in teoria il pericolo aumenta. Si aggiungano le udienze nelle quali il Papa cerca di incontrare e di intrattenersi con più gente possibile.

Auto blindata
e agenti in borghese
Insomma, qualche motivo di apprensione è giustificato, perché oltre tutto Francesco vive con una punta di insofferenza le misure di sicurezza. Ne sanno qualcosa alla Gendarmeria vaticana, che all’inizio ha faticato per convincere il primo pontefice argentino ad accettare un minimo di prevenzione. «Sull’auto blindata ci salite voi!». Raccontano che abbia accolto così la prima offerta di protezione, peraltro di routine. Durante la visita alla parrocchia di Tor Sapienza, nella periferia romana, a dicembre del 2013, disse dal pulpito: «Se qualcosa vi ha disturbato di questa visita, forse un eccesso di sicurezza, sappiate che io non sono d’accordo con quello, sono d’accordo con voi». E quando alcuni mesi dopo decise di andare a far visita a un amico protestante a Caserta, in Campania, non fu facile fargli capire che usare l’auto invece dell’elicottero avrebbe comportato problemi maggiori: Autostrada del Sole congestionata, scorta della polizia, posti di blocco. Alla fine si adattò ad un piccolo elicottero.
Non è un papa molto «gestibile», sebbene si sia abituato a convivere con gli imperativi della prevenzione, e ad accettarli. Sembra perfino che i suoi collaboratori a volte scherzino con lui sulle minacce di morte. «Santo Padre, ancora non l’hanno ammazzata oggi?», lo apostrofano superando il timore reverenziale che pure incute. «Jorge, ti proteggono abbastanza?», gli gridano i connazionali alle udienze, sotto gli occhi inquieti degli agenti in borghese con l’auricolare, disposti strategicamente a distanza intorno a lui anche sul sagrato di piazza San Pietro. Il pontefice ha imposto un modello di religiosità che significa distruzione di qualunque diaframma tra il papa-re ed i suoi sudditi: uno stile che lo ha reso un mito delle folle, e un obiettivo terroristico potenzialmente «facile».

La bandiera nera
sull’obelisco
D’altronde, Dabiq , la rivista online dell’Isis, diffusa da luglio anche in Europa in lingue diverse, a ottobre del 2014 ha messo sulla sua copertina digitale un fotomontaggio. Campeggia un’immagine di piazza San Pietro con l’obelisco sovrastato dalla sua bandiera nera e il titolo: «La Crociata fallita». L’Isis promette di non fermare la Jihad, la Guerra santa dell’Islam, «finché non ci troveremo sotto gli alberi di ulivo di Roma ed avremo distrutto quell’edificio osceno che si chiama Casa Bianca». Il nome della testata è altamente simbolico. Dabiq è il villaggio siriano dove nel 1516 gli Ottomani sconfissero i Mammalucchi, consolidando l’ultimo califfato della storia. E le sue minacce vengono prese sul serio.
Nelle ambasciate occidentali a Roma si avverte una certa inquietudine. Tra i diplomatici ci si scambia impressioni che danno corpo agli scenari più foschi. Ma i servizi di sicurezza italiani e vaticani appaiono più cauti. Analizzando la rivista Dabiq , la sensazione dell’intelligence è che con i suoi proclami l’Isis (acronimo di Islamic State of Iraq and Syria) stia parlando innanzi tutto all’interno del mondo musulmano, per imporre il primato sunnita contro gli odiati sciiti e accreditarsi come unico vero nemico dell’Occidente. Ma non esistono indizi di attentati clamorosi in preparazione da parte del gruppo terroristico. L’unico timore è che qualche affiliato europeo, per imitazione prepari un’azione dimostrativa fai-da-te: magari utilizzando un drone da pilotare su piazza San Pietro durante un’udienza. «Per ora», viene spiegato, «il pericolo non è quello di grandi attentati ma dell’atomizzazione dell’eversione».
Il nodo
di Santa Marta
Sono informazioni simili a quelle che circolano nei centri studi sull’antiterrorismo, da Washington a Londra. Sono stati esaminati documenti e rapporti che parlano di minacce al Papa. Ma non sono ancora ritenuti tali da convalidare la tesi di un piano sofisticato in incubazione, o di una minaccia concreta. La sensazione degli analisti è che per ora l’Isis concentri i suoi assassinii in Mesopotamia, senza uscire da quei confini religiosi e geografici: sebbene esorti i suoi seguaci europei a colpire, e il numero di terroristi inglesi e francesi «arruolati» dall’organizzazione metta i brividi. Ma il Pontefice continua a fare la vita di sempre. Uno degli aspetti che quanti lavorano con lui sottolineano, è che vuole essere padrone del suo tempo e della sua agenda, geloso della propria libertà.
Una volta il cardinale statunitense Timothy Dolan ha spiegato in un’intervista che Francesco si dovrà abituare alle restrizioni necessarie per garantire la sua incolumità personale: anche lui ci si era rassegnato quando era capo dei vescovi Usa. Ma non è chiaro quanto il Pontefice si sia adattato davvero a tutto questo. Un cardinale italiano che conosce bene Casa Santa Marta sostiene da tempo che prima o poi potrebbe accadere qualcosa tale da suggerire il trasferimento del Papa nell’Appartamento papale nel palazzo apostolico: quello occupato dai predecessori, oggi vuoto anche perché identificato con gli intrighi e gli scandali di Vatileaks: il furto di documenti riservati di Benedetto XVI, compiuto dal suo maggiordomo. Ma Francesco non appare né turbato né spaventato da quanto sta avvenendo. È assillato dalle persecuzioni e le stragi dei cristiani in Medio Oriente, e non smette di ricordare le vittime del terrorismo. Ha appena condannato l’ultimo attentato alla sinagoga di Gerusalemme. Ma non si preoccupa per i rischi che corre personalmente; né è intenzionato a cambiare residenza e abitudini.
Il quotidiano La Nación di Buenos Aires ha riferito che Juàn Carlos Molina, un prete argentino di un’organizzazione che combatte il traffico di droga, la Sedronar, il 12 novembre è stato a colloquio con Francesco per quaranta minuti. Hanno sorseggiato insieme con la cannuccia il mate caldo, l’infuso tipico del loro Paese. E Molina ha raccontato di avere detto al Papa, dandogli del tu come fanno molti sacerdoti che lo conoscono dai tempi in cui era arcivescovo di Buenos Aires: «Attento, ti possono ammazzare. Francesco mi ha risposto: “È la cosa migliore che mi potrebbe capitare. E anche a te…”». Non erano parole rassegnate. Sembrava dire, più semplicemente, che bisogna essere pronti anche al martirio.
Massimo Franco



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