«Sapevano che la polvere era nociva» Così Guariniello punta sulle aggravanti

«Sapevano che la polvere era nociva» Così Guariniello punta sulle aggravanti

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 TORINO La carta segreta era pronta da luglio. Gli interrogativi sul che fare, come ricominciare dopo una mazzata come quella della Cassazione finiscono con l’annuncio della Procura. Altra inchiesta, il solito sospetto, e obiettivi meno ambiziosi.
L’avviso di chiusura delle indagini è stato recapitato al destinatario di sempre, Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero che fu amministratore delegato di Eternit. Le accuse nei suoi confronti sono ancora peggio di quelle dell’inchiesta appena cassata a Roma, omicidio volontario continuato e pluriaggravato. In questo nuovo capitolo giudiziario, che riguarda 256 decessi avvenuti tra il 1976 e il 1986, conta molto la contestazione delle aggravanti, che se accolte porterebbero in via ipotetica alla pena dell’ergastolo. L’aver agito con «mezzo insidioso», è senz’altro una definizione inedita del terribile polverino, senza aver informato la cittadinanza dei rischi che correva. E poi i classici motivi futili e abbietti: «Ha indubbiamente commesso il fatto per fini di lucro».
Il nesso di causa ed effetto con la sentenza di mercoledì sera è innegabile. L’annuncio della nuova inchiesta ha anche un indubbio effetto placebo verso quei familiari delle vittime che ieri sono tornati ai loro paesi viaggiando nella notte su pullman dove non parlava nessuno. Senza speranza, senza qualcosa cui aggrapparsi, non resta che la disperazione. Raffaele Guariniello, uomo di calcolo e non di emozioni, ha messo nel conto le eventuali critiche per una tempestività che certo non può essere attribuibile al caso. Ma per una volta ha deciso che ne valeva la pena. Le circostanze, e la cupezza indotta ai diretti interessati dalla sentenza della Cassazione erano davvero eccezionali.
«Agendo con coscienza e volontà cagionava la morte di 256 tra lavoratori operanti presso i predetti stabilimenti, familiari degli stessi e cittadini residenti nelle zone limitrofe». Schmideheiny «fu consapevole» del fatto che il mesotelioma è una patologia dalla prognosi infausta correlata all’amianto, che le sedi italiane di Eternit «presentavano condizioni di polverosità enormemente nocive» e che le risorse finanziarie investite erano esigue. «E ciò malgrado, per mero fine di lucro» decise di continuare l’attività, di non modificare lo stato dei suoi stabilimenti e di risparmiare «sulle gravose spese» indispensabili per una radicale revisione degli impianti, omettendo l’informazione e la formazione dei lavoratori sul pericolo che correvano per consentire la fornitura di amianto a privati ed enti pubblici «per giunta inducendo un’esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante le attività ludiche».
L’avviso di conclusione delle indagini sembra quasi una invettiva nei confronti dello «svizzero». Ma i toni duri, seppur filtrati dal linguaggio giuridico, nascondono un cambio di strategia che non è stato certo deciso ieri e anche ambizioni più modeste e concrete. Il processo appena naufragato aveva in qualche modo esplorato le frontiere della giurisprudenza, inseguendo la prima condanna in Italia e non solo di un imprenditore per disastro doloso relativo all’amianto. Sarebbe stata una sentenza storica generata soprattutto da uno stato di necessità. Nel 2004, quando cominciarono le indagini del maxi processo appena naufragato, i magistrati torinesi si trovarono a un bivio. Davanti alla possibilità di esaminare centinaia e centinaia di singoli casi procedendo per omicidio, reato non prescrivibile, scelsero di tenere tutto insieme e intrapresero il cammino più veloce, ma anche più impervio, del processo per disastro. Sappiamo come è andata a finire. Adesso per tenere viva la speranza di giustizia non resta che la strada più lunga.


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