Acconciature per il potere

Acconciature per il potere

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Nata con la mis­sion di divul­gare sto­rie di gio­vani autori pro­ve­nienti da paesi remoti e poco noti, se non per il loro sapore eso­tico e per le scia­gure e i cata­cli­smi che tal­volta rag­giun­gono le cro­na­che inter­na­zio­nali, la casa edi­trice romana Terre di libri ha posto quest’anno l’attenzione sullo Zim­ba­bwe, paese afri­cano che per­fet­ta­mente rispec­chia que­sta defi­ni­zione, pub­bli­cando a breve distanza l’uno dall’altro Il par­ruc­chiere di Harare (di Ten­dai Huchu, pp. 248, euro 9,90, tra­du­zione di Ste­fa­nia Di Natale) e La fuga di Rudo verso i monti Phe­zulu (di Chri­sto­pher Mla­lazi, pp. 177, euro 9,50, tra­du­zione di Daniela Di Falco).

In maniera molto diversa, ma in entrambi i casi fre­sca e spon­ta­nea, i due gio­vani nar­ra­tori ren­dono un ritratto vivido e per­so­nale di uno stato post-coloniale un tempo flo­rido, ma tra­volto da decenni da una crisi pro­fonda e appa­ren­te­mente senza fine, ingab­biato in un vor­tice di vio­lenza e odio raz­ziale isti­gati da un dit­ta­tore in guerra con­tro il suo stesso paese.

In entrambi i romanzi, la Grande Sto­ria dello Zim­ba­bwe, retag­gio a sua volta della domi­na­zione colo­niale e di uno squi­li­brato ordine del mondo, viene fil­trata, rivis­suta e tra­smessa dal punto di vista di due gio­vani donne, una poco più che bam­bina, che assi­stono al degrado e talora per­fino all’orrore che le cir­conda ma cer­cano una via di fuga e soprav­vi­venza con capar­bietà e voglia di vivere.
Più leg­gera e deci­sa­mente diver­tente è la nar­ra­zione di Huchu, tren­ta­duenne scrit­tore zim­ba­b­wese che ora vive in Sco­zia e che ricorda il suo paese attra­verso gli occhi di una par­ruc­chiera sin­gle ven­ti­seienne e disil­lusa, con una figlia da man­te­nere frutto dello stu­pro da parte di un potente e in vista uomo d’affari, sullo sfondo di Harare, moderna capi­tale ma con tutte le disu­gua­glianze sociali e le pia­ghe delle grandi metro­poli in un mondo glo­ba­liz­zato, e con pro­blemi vec­chi e nuovi legati al colo­nia­li­smo e ai suoi retaggi. Vim­bai è il nome della pro­ta­go­ni­sta de Il par­ruc­chiere di Harare, esperta e ricer­ca­tis­sima par­ruc­chiera nel salone della Signora Khu­malo, dove le donne più ric­che e potenti della città se la con­ten­dono per farsi fare tagli e accon­cia­ture che le fac­ciano asso­mi­gliare a donne bian­che.
Il pri­mato di Vim­bai rimane incon­tra­stato fino a che nel salone non si pre­senta Dumi­sani, gio­vane di bell’aspetto e dai modi accat­ti­vanti che con­qui­sta la clien­tela non asse­con­dando le loro richie­ste ma esal­tando le loro par­ti­co­la­rità e ren­den­dole così uni­che e spe­ciali. Tra i due nasce un legame dap­prima di riva­lità, poi di ami­ci­zia e soli­da­rietà, che ten­terà di tra­sfor­marsi in altro, scon­tran­dosi però con verità nasco­ste e indi­ci­bili, che daranno un risvolto inat­teso alla trama.

Sotto la super­fi­cie fri­vola e pati­nata del salone di bel­lezza, si sno­dano vicende per­so­nali più sof­ferte, ma sem­pre trat­teg­giate con iro­nia e leg­ge­rezza, faide fami­liari, que­stioni ere­di­ta­rie e un’opprimente omo­fo­bia, inter­se­can­dosi a loro volta agli acca­di­menti nazio­nali sotto il regime di Mugabe: inef­fi­cienza dei ser­vizi, carenza delle scorte ali­men­tari e della ben­zina, cor­ru­zione dila­gante e un’inflazione spa­ven­tosa che con­ti­nua a sva­lu­tare la moneta a ritmo vor­ti­coso, il tutto acuito dall’arrogante spa­val­de­ria di poli­zia e classe poli­tica, che spesso si tra­muta in sopruso.

Ne La fuga di Rudo verso i monti Phe­zulu Chris Mla­lazi fa invece un salto indie­tro di qual­che decen­nio rac­con­tando il Guku­ra­hundi, «la piog­gia che spazza via le stop­pie», un ter­ri­bile epi­so­dio di vio­lenza inte­ret­nica che negli anni ’80 del secolo scorso portò al mas­sa­cro di 20.000 civili di etnia nde­bele da parte della Quinta bri­gata, un’unità spe­ciale dell’esercito dello Zim­ba­bwe adde­strata nella Corea del Nord per repri­mere i dis­si­denti. Que­sto che fu uno degli epi­sodi più cruenti della sto­ria del paese, è rivis­suto e fil­trato attra­verso gli occhi di una ragaz­zina appena quat­tor­di­cenne in fuga dal suo vil­lag­gio insieme alla madre (di etnia Shona), alla zia ed al cugi­netto di pochi mesi, dopo che i sol­dati ne hanno rapito il padre, ucciso i parenti ed incen­diato la casa.

Que­sto punto di vista decen­trato e a tratti inge­nuo, per­mette un’epurazione dell’atrocità e un atteg­gia­mento incre­dulo e stu­pito di fronte ad una vio­lenza e fero­cia umane appa­ren­te­mente così immo­ti­vate ed irra­zio­nali, indu­giando anche su momenti più quo­ti­diani e nar­ra­zioni più disten­sive, come la ricerca di cibo e la sco­perta di nuovi sapori durante la fuga, e la bel­lezza di un pae­sag­gio mae­stoso e incon­ta­mi­nato che si pre­senta agli occhi delle fug­gi­tive. Il tutto viene descritto da Mla­lazi con uno stile asciutto, privo di sen­ti­men­ta­li­smo e auto­com­mi­se­ra­zione, che fa ben spe­rare e lascia spi­ra­gli posi­tivi per il futuro, con­sen­tendo al let­tore di pro­se­guire nono­stante l’orrore, certo che alla fine Rudo — e con lei il suo paese — tor­ne­ranno a vedere la luce.



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