Proviamo allora, con l’aiuto di un interessante articolo contenuto nel dossier dell’Ispi del giornalista Enrico Casale, dal titolo Immigrazione, continua la tragedia sotto casa, ad analizzare dati e informazioni in modo più rigoroso.
È innanzitutto bene ricordare che il 5 dicembre del 2014, ossia appena un mese prima della tragedia che ha colpito il giornale Charlie Hebdo, 18 giovani profughi sono morti di freddo e disidratazione nel tentativo di attraversare con un gommone il Mar Mediterraneo. Dopo giorni di navigazione, il gommone è stato intercettato da una navea della Marina militare italiana che ha salvato 75 persone, ma per 18 giovani profughi non c’è stato scampo. Come ricorda Casale, quell’imbarcazione, come molte altre, era partita dalle coste libiche, direzione Lampedusa. Un viaggio della speranza, gestito generalmente da organizzazioni mafiose e terroristiche che difficilmente farebbero imbarcare propri adepti con il rischio di farli arrestare dalle forze dell’ordine che pattugliano il Mediterraneo, o morire, come accade spesso, di freddo o affogati. Per quelle organizzazioni, ogni adepto o fanatico pronto al massacro è un investimento che ha senso solo se esegue il suo mandato terroristico e non certo se muore in mare o viene catturato.
Il 2014 è stato l’annus horribilis per l’immigrazione verso l’Europa. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), 348mila persone nel mondo hanno rischiato la vita sui barconi per migrare o cercare asilo in altri paesi. Di queste, 4.272 sono decedute. Sempre nel 2014 oltre 207mila persone hanno tentato o sono riuscite ad attraversare il Mediterraneo, tre volte in più rispetto al 2011 (ultimo picco), quando erano 70mila i profughi in fuga verso l’Europa. Ma è record anche per i morti: su 4.272 vittime, 3.419 hanno perso la vita tentando di superare il Canale di Sicilia.
Secondo Casale e l’Ispi, si contano almeno sei grandi vie percorse da coloro che si dirigono verso l’Europa. La prima segue il sentiero occidentale e interessa soprattutto Mali, Senegal e Gambia. Il sentiero nel Sahel s’incrocia con la seconda via usata da chi proviene da Nigeria, Ghana e Niger. È Agadez, in Niger, la città-snodo della rotta occidentale, dove si è registrato un forte aumento della presenza di africani occidentali. Ad agosto 2013 se ne contavano più di 5mila. Metà dei profughi che arriva a Lampedusa racconta di essere passata da lì.
Chi passa dal corridoio centrale, fa tappa anche in Burkina Faso. A Ouagadougou, la capitale burkinabé, è forte la presenza della mafia nigeriana che gestisce i traffici delle vittime di tratta. Un’organizzazione spietata, con diramazioni anche in Occidente, dedita al traffico di uomini e soprattutto donne che poi costringe alla prostituzione. Per 3.200 chilometri di frontiere con sei differenti paesi, il Burkina Faso ha poco personale per gestire un passaggio di decine di migliaia di persone al giorno. Attraverso queste due rotte, tra l’altro, passano anche i traffici di sigarette e droga provenienti dall’America latina, tanto per dire. Questi traffici, insieme a quelli di esseri umani, vengono gestiti anche dai gruppi islamici fondamentalisti per finanziare il jihadismo nel Sahel. Un’analisi accurata di questa regione e delle sue dinamiche si ritrova nel libro Sahel in movimento (L’Harmattan Italia editore, euro 36.00), a cura di Maria Luisa Maniscalco, docente ordinario di sociologia all’università di Roma Tre, realizzato con il contributo del Cemiss (Centro militare di studi strategici).
I profughi del Corno d’Africa, che arrivano soprattutto da Eritrea, Etiopia, Sud Sudan e Darfur, percorrono invece altre tre rotte. Le due principali portano a Omdurman, in Sudan. Al mercato cittadino si trovano i passeurs che li guidano verso l’oasi di Cufra (Libia), da qui a Tripoli e poi a Lampedusa (rotta in parte seguita anche dai profughi siriani che fuggono dalla guerra civile); oppure risalgono il Sudan verso l’Egitto e poi verso Israele. Quest’ultima rotta è particolarmente rischiosa. Molti di loro finiscono nelle mani dei beduini del Sinai che li rilasciano solo in cambio di lauti riscatti e dopo averli sottoposti a violenze inaudite. Su questi rischi non è secondaria la responsabilità di Israele, indifferente ai diritti umani. Secondo le stime dell’Unhcr, 83mila persone hanno tentato di attraversare lo Stretto di Aden verso la Penisola araba cercando fortuna nei ricchi Paesi del Golfo.
L’ultima rotta, la più recente, è quella che dall’Africa orientale porta i migranti in Africa occidentale e, da qui, verso l’America latina.