La tecnica unirà l’Europa

La tecnica unirà l’Europa

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Il problema dell’unità politica dell’Europa richiede di essere affrontato tenendo conto di due tendenze che, sebbene contrastate, sono nell’ordine delle cose. La prima è quell’infittirsi dei rapporti economici tra Europa e Russia che (nonostante l’attuale stato di tensione) prelude a forme sempre più strette di cooperazione, peraltro ostacolate dagli Stati Uniti. La seconda — che include la prima ed è la più decisiva — consiste nella progressiva trasformazione degli Stati più ricchi in società tecnocratiche (che tra l’altro hanno di per sé la capacità di risolvere il problema della fame nel mondo e alla fine saranno esse, appunto in quanto tecnocratiche, a risolvere il problema della pressione dei popoli poveri su quelli ricchi).
Tendenze entrambe contrastate e in se stesse contrastanti in modo estremamente complesso. L’avvicinamento dell’Europa alla Russia, ad esempio, è rallentato dagli Stati Uniti, che però stanno prendendo coscienza di ciò che li unisce alla Russia — cioè la necessità di far fronte comune contro il fondamentalismo islamico — e che quindi li rende meno intransigenti rispetto a quell’avvicinamento (e alla questione nucleare iraniana). E d’altra parte esso è oggettivamente favorito proprio da quelle forze che in Europa sarebbero le più disposte alla cosiddetta Grexit e che insieme sono le più intransigenti nei confronti della Russia. Infatti è venuto del tutto in chiaro che l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe un’occasione, per la Russia, di presentarsi come salvatrice dell’economia greca, aumentando in modo consistente, anche se oneroso, la propria presenza in Europa e nel Mediterraneo.
L’unità politica dell’Europa non conviene alla Germania. Tra i vari motivi, anche perché un Superstato europeo dovrebbe pur sempre mostrare di essere democratico, in cui l’assegnazione del potere sarebbe il risultato di libere elezioni dove gli interessi della Germania potrebbero venir posti in minoranza. Non solo, ma, se ci si porta al fondo del problema — e nonostante quello che si continua a dire — l’unità politica dell’Europa non conviene nemmeno all’Europa. È un seme che tende a generare un frutto già vecchio.
Perché, infatti, si continua a invocare da più parti l’unità politica, sostenendo che l’unità monetaria non basta? Perché, si risponde, una moneta unica sulla cui gestione possono influire forze diverse e tra loro contrastanti, cioè gli Stati nazionali europei, circola in modo esso stesso contraddittorio, non può cioè assolvere ai propri compiti. E si conclude dicendo che, responsabili di questa disfunzione essendo appunto gli Stati nazionali, è necessario sostituirli con l’unione politica dell’Europa, con un Superstato politico.
Proviamo a saggiare la consistenza di questo ragionamento. È viziato, perché da una premessa valida trae una conclusione arbitraria: dalla necessità di una gestione unitaria della moneta unica (premessa valida) inferisce arbitrariamente che tale gestione non possa esser data che dall’unità politica dell’Europa. Il presupposto è che tale gestione possa venir praticata soltanto dallo Stato inteso come forza politica.
Ma la politica è in crisi. Come sono in crisi — e inevitabilmente — tutti i valori della tradizione occidentale. A questi valori la politica si è ispirata. Oggi la democrazia procedurale gestisce valori in crisi — ed è essa stessa in crisi perché nonostante la sua apparente neutralità condivide a sua volta alcuni di quei valori (eguaglianza, libertà, ad esempio). Da tempo la politica ha ceduto all’economia la guida della società. Nelle società capitalistiche la politica (ormai anche quella di sinistra) mira a garantire il miglior funzionamento dell’economia di mercato. Di fatto, lo Stato non è più Stato politico, ma economico. Ne è una prova, in Europa, l’esistenza di più di sessant’anni di cooperazione economica tuttavia priva di unità politica — questo, anche se la cooperazione non ha certo eliminato i contrasti politico-nazionali e la gestione contraddittoria della moneta unica. Proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo.
Ma è già in atto il processo in cui l’economia sta a sua volta cedendo alla tecnica la guida della società. Come altre volte ho chiarito anche in questa sede, lo scopo delle società capitalistiche tende a non esser più l’incremento indefinito del profitto privato, ma l’incremento indefinito della potenza prodotta dalla tecno-scienza. Un processo che si lascia alle spalle ogni nostalgia del marxismo, della politica, della tradizione morale-religiosa. Un processo, dunque, dove è il capitalismo stesso a portare al tramonto se stesso. Lasciandosi alle spalle il proprio scopo, infatti, il capitalismo non è più capitalismo.
Esso è diventato dominante perché la produzione industriale si serve della forza che si mostra la più potente di tutte: la tecnica moderna. La potenza di questa serva è destinata a diventare la padrona — a differenza dei cosiddetti «governi tecnici» comparsi in Europa, che rimangono al servizio del capitale. Il capitalismo stesso è interessato a rendere sempre più potente lo strumento tecnico di cui esso si serve.
Gli Stati nazionali europei, da Stati politici (cioè economici) stanno pertanto diventando sempre più funzionali al Superstato tecnico europeo, esso stesso in via di formazione, ossia tendono a cedere la propria sovranità non a un Superstato politico, ma ad una organizzazione tecnica dello Stato, in grado tra l’altro di gestire la moneta unica in modo unitario, e per definizione razionale, senza gli inconvenienti della gestione politica. (Quindi il reciproco avvicinamento di Europa e Russia di cui si diceva all’inizio è destinato a non avere un carattere politico, ma a realizzarsi come marcia di entrambe, certamente lunga e non priva di incognite anche gravi, in direzione del Superstato tecnico).
Orbene, là dove lo scopo della società riesce a diventare la crescita indefinita della potenza, il denaro rappresenta pur sempre beni, strumenti, competenze, ecc., tuttavia coordinati non più alla crescita del profitto, ma alla crescita della potenza. Marx rileva che alla circolazione delle merci, dove il denaro serve a scambiare un certo tipo di merce con un altro, il capitalismo ha sostituito una circolazione dove la produzione delle merci serve ad accrescere il capitale inizialmente investito. (Descrizione difficilmente contestabile — a meno che non si voglia sottoscrivere l’improbabile tesi che il capitalista produca merci allo scopo di farle consumare agli acquirenti). Nello Stato tecnico il denaro abbandona il proprio carattere di scopo e riprende quello di rappresentazione, ma, questa volta, di rappresentazione di beni, strumenti, competenze, eccetera, coordinati alla crescita della potenza.
D’altra parte il capitalismo fornisce alla tecnica lo schema della crescita indefinita di ciò che viene inizialmente impiegato. Ma il capitalismo impiega il denaro, la tecnica impiega la potenza. Inoltre il capitalismo non produce beni che non siano merci, ossia beni da vendere. Invece, nello Stato tecnico i beni prodotti possono sì diventare merci, ma non li si produce allo scopo di renderli merce, bensì allo scopo di aumentare la potenza complessiva dello Stato. Nel quale il denaro può sì continuare a produrre merci per incrementare se stesso (ossia per realizzare profitto), tuttavia questo incremento non è più lo scopo della produzione, come invece avviene nel capitalismo, ma la stessa produzione capitalistica diventa mezzo per accrescere la potenza — e dunque è una produzione che non è più capitalistica. L’incremento tecnico della potenza è il «bene comune» destinato a prevalere anche sul «bene comune» che il cristianesimo esorta a perseguire in modo che a esso il profitto resti subordinato.
Si continua a sostenere che la crisi del capitalismo non è dovuta al capitalismo in quanto tale, ma a quella forma del capitalismo finanziario che ha separato la circolazione del denaro dalla produzione di beni. Da questo punto di vista, una volta eliminata tale separazione, il capitalismo tornerebbe in salute e sarebbe anche in grado di evitare la propria subordinazione alla tecnica. Sennonché quella separazione non appartiene alla patologia, bensì alla fisiologia del capitalismo. Ne è lo sviluppo fisiologico. Infatti è il capitalismo in quanto tale, sin dal suo inizio, a separare il denaro dalla produzione dei beni. Se il bene prodotto serve primariamente a incrementare il capitale — e pertanto è merce —, alla produzione capitalistica è indifferente quale merce produrre. La produzione è sì unita alla merce in generale, ma è separabile da ogni merce determinata. Nelle esorbitanze del capitalismo finanziario questa separabilità fa poi perdere di vista anche quell’unità.
Le considerazioni che abbiamo tratteggiato non hanno nulla a che vedere con una esortazione — l’esortazione alla tecnica. Sono piuttosto la constatazione di un processo in atto, tanto più incisivo e inevitabile quanto meno ci si accorge della sua presenza e quanto più le forze oggi dominanti credono di poter continuare a servirsi della tecnica senza che i nodi abbiano mai a venire al pettine. Non si esortano i fiumi a scendere verso il mare.
Si tratterà poi di vedere quali minacce il mare tenga in serbo.
Emanuele Severino


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