Il gigante e il consumatore

Il gigante e il consumatore

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Gusti, abitudini, spostamenti. Grazie ai loro sofware le grandi aziende raccolgono sempre più informazioni sulle nostre vite. Mentre, proprio grazie all’elettronica, riescono a sottrarsi (quasi sempre) al controllo dei clienti e delle associazioni E anche quando sono travolte dagli scandali, come nel caso della Volkswagen, è difficile portarle sul banco degli imputati. Così la lotta tra utenti e industrie rischia di diventare ancora più impari
OGNI volta che aggiornate il software dell’iPhone, la Apple vi chiede di sottoscrivere un contratto di licenza, lungo 14 pagine. Sul pc. Sul più piccolo schermo del telefonino è lungo il doppio. La prima volta avete letto le prime due righe, adesso neanche quelle. Firmate in bianco. Il contratto con Tim o Vodafone per l’uso del cellulare ha un numero di clausole vicino alle tre cifre, di cui, al massimo, siete andati a vedere i costi delle telefonate.
Ogni volta che comprate online un biglietto del treno o dell’aereo, accettate termini e condizioni del servizio di cui ignorate tutto. Se contemplassero il vostro consenso ad essere venduti come schiavi in qualche piantagione delle Antille, non ne sapreste nulla, fino a quando non vi vengono a prendere a casa. Naturalmente, nessuno è interessato alle vostre prestazioni con il machete e la canna da zucchero. Ma un pezzo della vostra libertà la cedete, quando consentite a Apple o a Tim di sapere e controllare chi siete, cosa fate, perché, dove vi trovate e dove andrete. E’ roba preziosa, valuta pubblicitaria di gran pregio. Che spendete inconsapevolmente ogni giorno, anche decine di volte al giorno, girando su Internet. Novanta italiani su 100 non sanno cosa è quel cookie che accettano di installare da un sito che stanno visitando e, degli altri dieci, al massimo due o tre arriveranno in fondo al macchinoso processo di farne a meno. Ma il cookie è come la spia che, nei thriller di una volta, veniva attaccata sotto una macchina per seguirne con comodo gli spostamenti. E, seguendo i cookie, giganti come Google o Facebook possono tracciare i vostri percorsi sul web e, dunque, gusti, curiosità, ossessioni, necessità. Da tempo, ormai, di fronte ai colossi della nuova economia, la massa dei consumatori in Rete ha sempre meno segreti.
La novità è che, ora, i segreti stanno sparendo anche nella vita reale. Provate a scaricare una nuova app sul vostro telefonino e vedrete che vi chiederà – anche se si tratta di un banale programma di scrittura – di utilizzare i servizi di localizzazione, per sapere dove siete. Incrociare i dati sui vostri movimenti nella vita reale e in quella digitale non è difficile: il risultato è che siete, 24 ore su 24, su un radar di cui non sapete nulla. A volte, tutto questo è puntigliosamente specificato e anticipato nelle righine piccole piccole del contratto che avete firmato. A volte no, come quando i segugi del web, lavorando sulla Rete parallela e nascosta che interseca la Rete visibile, scrutandone il traffico, mettono insieme le informazioni mediche che avete chiesto a Google, ne ricavano un profilo sanitario e lo vendono. Dal punto di vista del consumatore, tuttavia, cambia poco. In un caso e nell’altro, procede alla cieca, in balia di forze più grandi di lui, che non è in grado di controllare e, spesso, anche di individuare. Naturalmente, le clausole scritte in piccolo, da leggere con accuratezza, sono sempre esistite. Il problema, ora, è che le transazioni da tenere sotto controllo sono passate da una alla settimana a dieci al giorno. Quando compravamo il prosciutto dal salumiere sotto casa, era tutto chiaro. Se era rancido glielo riportavamo e ci facevamo ridare i soldi. Adesso che lo compriamo in Rete, da qualche produttore spagnolo, il principio è identico, ma i tempi sono diversi, le responsabilità più incerte, i risarcimenti macchinosi.
In questo mondo complicato, i rapporti di forza fra la grande azienda che domina il mercato e la platea dei consumatori si sono irrimediabilmente divaricati, perché la grande azienda sa troppe cose che il consumatore fa fatica a sapere e, sempre più spesso, non può sapere.
Il risultato è che si può solo sperare che l’azienda non se ne approfitti. Man mano che gli apparecchi (auto, tv, tablet, giocattoli, robot) diventano più intelligenti, grazie a software migliori, osservano gli esperti, smascherarli diventa più difficile. «L’era del crimine digitale – ha scritto una rivista tutta digitale, Fusion.net – sembra essere appena all’inizio». Lo scandalo Volkswagen ne è un annuncio fragoroso. Intendiamoci, l’industria dell’auto ha una fedina penale lunga, ben al di là della Germania. Migliaia di Toyota sono state fermate perchè non funzionavano gli air bag. Più di 100 persone sono morte in incidenti dovuti al fatto che la loro General Motors aveva un difetto alla chiavetta di accensione. Il caso Volkswagen è vergognoso, perchè la truffa era consapevole, ma neanche questo è inedito. Hyundai e Kia hanno pagato 350 milioni di dollari di multa, perché facevano i test sul consumo di carburante sfruttando il vento in poppa. La novità del caso Volkswagen è che, al contrario di quanto avvenuto con Gm e Toyota e, in fondo, anche con Kia e Hyundai, il consumatore non aveva modo di accorgersi di nulla. La truffa digitale era, letteralmente, sotto il suo naso, ma non poteva vederla. A leggere le clausole scritte in piccolo e, spesso, anche a verificare tecnicamente le affermazioni delle aziende, in realtà, qualcuno c’è. Sono le associazioni dei consumatori che, tuttavia, anche dove sono più potenti, come negli Usa, sono spesso costrette a lunghe e costose battaglie giudiziarie. Più difficili in Italia, dove lo strumento principe di queste battaglie, la class action, ovvero il ricorso collettivo per il risarcimento, è nato solo cinque anni fa e i risultati finora raggiunti sono magri: su 50 richieste presentate finora, 16 sono state dichiarate inammissibili, 22 sono in attesa di decisione, 9 sono state ammesse, 3 sono state accolte, ma solo 1, ad ora, ha prodotto un risarcimento. Secondo i protagonisti, come Paolo Martinello, il presidente di Altroconsumo, manca anche, nei giudici italiani, una cultura dei diritti del consumatore.
Più sensibile sembra essere lì Autorità Commissione Antitrust che ha, fra i suoi compiti istituzionali, la tutela del consumatore. La sua banca dati è uno sgranarsi di provvedimenti contro grandi catene di autonoleggio che non provvedono le catene da neve, contro fast food disinvolti, piattaforme online che non consegnano la merce pagata e non risarciscono.
Le autorità di controllo, del resto, sono più che capaci di mostrare, quando vogliono, i denti. Lo si è visto negli Usa con Volkswagen. In Europa con le clamorose procedure contro giganti come Microsoft e Google. Nel mondo globale, tuttavia, imporre le regole diventa difficile quando le filosofie sono diverse. Gli europei si preoccupano soprattutto della concorrenza e, per questo, marcano stretto Microsoft e Google, accusandole di abuso di posizione dominante. Il parametro principale, oltre Atlantico, analogo, fino a qualche decennio fa a quello europeo (come mostra lo sgretolamento degli imperi Rockefeller e Bell) è oggi concentrato sul consumatore. Se Microsoft fornisce un servizio più efficiente e più economico degli altri, al diavolo la concorrenza. I maligni osservano che questo diverso approccio ha un conveniente riscontro nazionale e sottolineano che gli americani perseguono l’europea Volkswagen, mentre gli europei se la prendono con le americane Microsoft e Google.
Il caso delle auto diesel Volkswagen, che inquinano assai più su strada che in laboratorio, grazie ad un software compiacente, mostra che questo diversa sensibilità alle lobby di casa non si limita ai casi più clamorosi, ma interviene anche nella stesura stessa delle regole. Il diesel consuma meno (e dunque produce meno emissioni), ma a temperature più alte (e dunque più gas inquinanti). In America, dove il diesel copre solo il 3 per cento delle vetture, le norme sono assai severe sugli inquinanti, meno sulle emissioni. Penalizzano, insomma, il diesel. In Europa, dove più del 50 per cento dei veicoli sono diesel, si stangano le emissioni, meno gli inquinanti. Penalizzata la benzina, favorito il diesel.
Inutile, tuttavia, sperare nel gusto dello sgambetto reciproco per spingere le autorità di controllo a tenere a briglia corta i giganti dell’economia. In fondo, a inchiodare la Volkswagen e proteggere i consumatori, non è stata nè l’autorità di controllo americana, nè quella europea (che, anzi, aveva fatto finta di non sentire chi lanciava l’allarme). E’ stato il caso. Sotto forma di un oscuro istituto universitario del West Virginia, che ha fatto il test su una Passat e una Jetta prese a noleggio, convinto che i risultati avrebbero dimostrato quanto fossero più puliti i motori europei. Una beffa. Ma qualcosa di molto fragile a cui aggrapparsi per difendersi dal gigante che tenta di fregarci.


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