Accordo sul filo di lana, Fca e Uaw firmano una seconda bozza di contratto

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Aggior­na­mento delle 8.20: il sin­da­cato Uaw e i ver­tici di Fiat-Chrysler hanno fir­mato nella notte (le 5 in Ita­lia) una seconda bozza di con­tratto qua­drien­nale da sot­to­porre al refe­ren­dum degli ope­rai iscritti al sin­da­cato. La bozza sarà pre­sen­tata alle 11 di mat­tina di venerdì, ora di Detroit.

I lavo­ra­tori dell’Uaw, il sin­da­cato dei metal­mec­ca­nici ame­ri­cani, non fanno un giorno di scio­pero dalla fine degli anni ’90 ma il declino della sto­rica union dura dagli anni ’80.

Un sin­da­cato che nel 1979 aveva oltre 1,5 milioni di ade­renti oggi ne conta 380.000, di cui 140mila dipen­denti dei tre big: Ford, Gene­ral Motors e Fiat-Chrysler (Fca).

Men­tre scri­viamo, le trat­ta­tive tra Fca e l’Uaw vanno avanti «a oltranza», dopo la boc­cia­tura da parte degli ope­rai del rin­novo con­trat­tuale pro­po­sto da Mar­chionne e sin­da­cato. L’ultimo scio­pero alla Chry­sler fu nel 2007, alla vigi­lia del crollo, ma durò circa 7 ore.

In attesa delle deci­sioni di oggi, Chry­sler resta un caso para­dig­ma­tico: 30 anni rac­chiusi fra due bancarotte.

All’epoca della prima grande crisi era pre­si­dente Ronald Rea­gan e all’epoca la Chry­sler, stra­paz­zata dalla reces­sione, dovette essere sal­vata dall’intervento del governo fede­rale. La crisi quasi fatale del terzo costrut­tore ame­ri­cano rese cele­bre Lee Iacocca, il mana­ger ita­loa­me­ri­cano che nego­ziò il pac­chetto di cre­diti che ave­vano «sal­vato» l’azienda. Ma la reces­sione del 1980 (seguita dallo sbarco in Ame­rica di costrut­tori giap­po­nesi e tede­schi) costò cara al sin­da­cato, che (anche in quell’occasione) accettò ridu­zioni dei salari e licen­zia­menti che alla fine hanno por­tato alla can­cel­la­zione di quasi 50mila posti di lavoro.

Trent’anni anni dopo, durante il crack finan­zia­rio inne­scato dai sub­prime, la più pic­cole delle «sorelle» di Detroit ha dovuto affron­tare una crisi iden­tica, con il sal­va­tag­gio dell’amministrazione Obama. Un sal­va­tag­gio di cui ha bene­fi­ciato un altro diri­gente ita­loa­me­ri­cano, Ser­gio Marchionne.

Ancora una volta, il sal­va­tag­gio della Chry­sler è avve­nuto in larga parte sulla pelle dei lavo­ra­tori. Come con­di­zione del finan­zia­mento pub­blico, infatti, l’Uaw ha accet­tato il con­ge­la­mento degli sti­pendi, la divi­sione di due fasce sala­riali dei lavo­ra­tori molto dise­guali tra loro e una mora­to­ria di cin­que anni sugli scio­peri sca­duta solo ora.

Uscito dalla seconda ban­ca­rotta in 30 anni, il colosso dell’auto ame­ri­cano è diven­tato intanto un’effettiva mul­ti­na­zio­nale dopo il matri­mo­nio con la casa tori­nese. Fino a pochi giorni fa né il sin­da­cato né Mar­chionne si aspet­ta­vano l’insurrezione della base dopo l’ennesima riti­rata sin­da­cale. Gli ope­rai hanno detto no al 65% votando in massa. È la prima volta in 30 anni che accade una «rivolta» simile.

Il costo di uno scio­pero in tutti gli sta­bi­li­menti Usa potrebbe costare alla Fca 40 milioni di dol­lari di utili e 1 miliardo di ricavi a set­ti­mana, influen­zando anche gli sta­bi­li­menti canadesi.

Lo scon­tro avviene sullo sfondo di una dein­du­stria­liz­za­zione libe­ri­sta che dagli anni ‘80 ha visto anche negli Usa una vera emor­ra­gia dell’occupazione, acce­le­rata dopo che il trat­tato di libero com­mer­cio inte­ra­me­ri­cano Nafta siglato nel 1994 ha espor­tato, soprat­tutto in Mes­sico, decine di migliaia di posti di lavoro del set­tore auto­mo­bi­li­stico e dell’indotto dei ricambi.

In con­tem­po­ra­nea, i salari hanno subito una decre­scita con­stante che l’attuale «ripresa» non ha fatto nulla per arre­stare. Di pari passo, anche i diritti dei lavo­ra­tori sono andati ridu­cen­dosi, fino all’accordo sin­da­cale su retri­bu­zioni a due marce per cui i nuovi assunti lavo­rano con una paga ora­ria che è quasi la metà di quella dei col­le­ghi con mag­giore anzia­nità. Alla Fca i gio­vani ope­rai per­ce­pi­scono una paga di 15$ l’ora a fronte di salari fino a 28,33$ l’ora per i «veterani».Il con­tratto pre­ve­deva aumenti pro­gres­sivi nei nuovi salari ma ad oggi, a fronte di quat­tro anni di boom che hanno visto i costrut­tori rag­giun­gere i 17 milioni di vet­ture pro­dotte annual­mente e utili com­ples­sivi di 73 miliardi di dol­lari (3,2 miliardi solo quest’anno per Fiat Chry­sler), non c’è stato un riscon­tro cor­ri­spet­tivo nelle buste paga.

Citando la «cicli­cità impre­ve­di­bile» del mer­cato auto­mo­bi­li­stico, l’azienda di Mar­chionne — come Ford e Gm — ha voluto pro­lun­gare il copione dif­fuso di una ripresa che mol­ti­plica i pro­fitti ma lascia indie­tro dipen­denti, ope­rai, sti­pendi: il lavoro.

La ver­tenza avviene per­di­più sullo sfondo di un nuovo impulso alla delo­ca­liz­za­zione glo­bale, con­te­nuto nei nuovi trat­tati sul com­mer­cio spinti dall’amministrazione Obama.

Il Tpp fir­mato pro­prio que­sta set­ti­mana con le nazioni asia­ti­che (meno la Cina), se rati­fi­cato dal con­gresso, avrà il pre­ve­di­bile effetto di met­tere sotto nuova pres­sione la forza lavoro americana.

È nel con­te­sto di una riti­rata lunga 30 anni, senza pro­spet­tive di fine, che gli ope­rai Fiat Chry­sler hanno scelto di dire basta. Una risco­perta della «memo­ria sto­rica» dello scio­pero che ha come cassa di riso­nanza poli­tica l’incipiente cam­pa­gna elettorale.



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