Il caso Shalabayeva inguaia un questore e il capo dello Sco

Il caso Shalabayeva inguaia un questore e il capo dello Sco

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 PERUGIA. L’indagine sul caso di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa dal nostro Paese tra il 28 e il 31 maggio del 2013 con modalità e responsabilità che portarono il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che a quella vicenda diede l’input, a un passo dalla sfiducia in Parlamento, si chiude con la notifica di otto avvisi di garanzia.
Otto provvedimenti che colpiscono la Polizia di Stato e due suoi dirigenti di primo piano con la contestazione di un reato gravissimo: il sequestro di persona “in concorso” con funzionari dell’ambasciata kazaka a Roma di cui non si conosce il dettaglio. E che, ancorché scrivere la parola fine della vicenda, la riaprono con fragore, facendo volare gli stracci e lasciando senza risposta la domanda chiave. Se fu davvero un sequestro di persona, chi lo ordinò? E grazie a quali complicità politiche e degli apparati quel sequestro fu possibile?
Le otto contestazioni, dopo che la procura di Roma aveva depositato il suo fascicolo nel maggio scorso con cinque avvisi di garanzia per falso ideologico e omissione di atti d’ufficio, portano la firma stavolta dalla Procura di Perugia (competente perché nell’indagine è coinvolto un giudice di pace di Roma). E i destinatari, a diverso titolo, sono l’attuale direttore dello Sco, reparto investigativo di eccellenza della Polizia, Renato Cortese (all’epoca dei fatti capo della Squadra Mobile di Roma), il questore di Rimini Maurizio Improta (allora capo dell’ufficio immigrazione di Roma), il capo della Mobile di Cagliari Luca Armeni (quale ex dirigente della Questura di Roma), l’attuale dirigente della Mobile di Roma Francesco Stampacchia, l’assistente capo Laura Scipioni, i due agenti Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, e il giudice di pace Stefania Lavore, che convalidò il fermo della Shalabayeva presso il Cie.
Tutti protagonisti, non esattamente di prima fila, di una storia che diventa un caso internazionale il 2 giugno 2013 quando l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino chiede spiegazioni al ministro dell’Interno, Angelino Alfano sul blitz della Polizia nella villa di Casal Palocco dove Alma Shalabayeva viveva con la figlia Alua.
Ebbene, ora le indagini, condotte dai carabinieri del Ros di Perugia, fanno emergere le prime irregolarità già nella fase del blitz. Irregolarità che si ripeteranno nell’udienza di 40 minuti di fronte al giudice di pace, Stefania Lavore, che, non solo avrebbe ignorato la dichiarazione dell’avvocato svizzero Charles De Bavier sullo status di dissidente politico di Mukhtar Ablyazov, ma avrebbe giudicato falso il passaporto della Repubblica Centrafricana della donna che invece era autentico.
Nell’indagine di Perugia, la questione del passaporto è centrale per stabilire la regolarità dell’espulsione, e, a posteriori, appare strategica anche per il governo kazako che, nei mesi successivi al 2 giugno, esercita enormi pressioni su quello centrafricano per ottenere la revoca dei passaporti riconosciuti a cittadini stranieri. Le prove sono contenute in un carteggio riservato tra l’ambasciatore centrafricano in Francia, Emmanuel Bongopassi, il ministro degli Esteri centrafricano, Léonie Banga-Bothy e il ministro degli Esteri kazako, Erlan Idrissov. Il primo cablo è datato 6 febbraio 2014 e porta la firma di Bongopassi. Al suo interno si parla di un “Dossier Kazakhstan” legato all’affare Ablyazov, in merito al quale dal novembre 2013 il governo di Astana sta chiedendo l’annullamento dei passaporti diplomatici riconosciuti ai cittadini kazaki promettendo in cambio aiuti economici per lo sviluppo del Paese.
Il palese tentativo di pressioni viene però rispedito al mittente da Léonie Banga-Bothy, che il 18 febbraio del 2014 invia una lettera al collega kazako (registrata al dicastero con il numero di matricola 0064) nella quale dichiara lapidario: «tutti i passaporti della Repubblica sono autentici». Pressioni internazionali che – secondo i tabulati telefonici e le intercettazioni raccolti dal Ros – innescano, tra il 28 e il 31 maggio, 48 ore di scambi frenetici tra gli uffici di questura, immigrazione e giudice di pace per un’unica conclusione: mettere le carte a posto per vestire di legalità l’espulsione dall’Italia di una donna e di sua figlia minorenne. Ma qui, appunto, le certezze dell’indagine si fermano e cominciano le domande senza risposta. Nella ricostruzione della Procura di Perugia, per quanto allo stato è dato conoscere, i due poliziotti chiave accusati ora di sequestro – Cortese e Improta – si muovono in uno spazio “vuoto”. Commettono un reato gravissimo non si capisce bene se nell’inconsapevolezza o, peggio, ingenuità non solo della catena gerarchica del Viminale (l’allora questore di Roma, l’allora capo della polizia vicario Marangoni, l’allora capo di gabinetto del ministro Procaccini, che per altro all’epoca fu l’unico a dimettersi, e lo stesso ministro Alfano), ma anche degli uffici della Procura di Roma, nella persona del Procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Eugenio Abbamonte che all’espulsione diedero il nullaosta. Né è dato sapere perché lo avrebbero fatto. Perché delle due l’una. O avrebbero ricevuto un ordine, e in questo caso, allora, l’indagine è monca della sua parte essenziale, i mandanti del sequestro. O, al contrario, se quell’ordine non venne impartito, qualcuno, a posteriori, avrebbe brigato per nascondere la verità. E anche in questo caso gli 8 avvisi di garanzia non danno risposta.


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