L’odissea dei bulgari schiavi nei campi per un euro all’ora

L’odissea dei bulgari schiavi nei campi per un euro all’ora

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SIBARI. La prima volta che hanno visto Lamerica è stata nell’angolo di questo stanzone della Guardia di finanza di Sibari. Una macchinetta con le luci accese. «L’ho riempita di monetine, tutte quelle che avevo in tasca. Hanno preso acqua, succhi di frutta e cioccolato. Ho dovuto convincerli che era soltanto un regalo, che per la prima volta avevano conosciuto un italiano che non chiedeva loro nulla in cambio. Mi hanno sorriso e hanno conservato tutto nella borsa. Poi, quando li abbiamo convinti a parlare, ho capito perché».

A raccontare, mentre gioca nervosamente con le mani, torturando la fede, è un esperto militare del Comando. È stato lui, insieme ai suoi colleghi, a salvare la vita a tre ragazzi bulgari arrivati in Italia convinti di trovare fortuna. E invece hanno conosciuto questa cosa qui: «Ho 24 anni, sono bulgaro, mi chiamo D.N.», e le iniziali qui sono un genere di sopravvivenza. «Sono arrivato grazie a un mio connazionale che viveva a Corigliano e mi aveva detto che potevo trovare lavoro. Conoscevo già l’Italia e anche qualche parola della vostra lingua, perché ci vive mia madre». Corigliano, Cassano: la piana di Sibari è la più grande cassetta di clementini di Italia. «Ero venuto per raccogliere agrumi – continua – Avevamo pattuito, verbalmente, una paga da 25 euro al giorno che mi doveva essere corrisposta ogni settimana. Erano bei soldi». Settecento euro al mese per questi ragazzi sono molto più che Lamerica anche quando sono il corrispettivo di dieci ore di lavoro al giorno. Senza soste. Senza cibo.

In realtà da quello stipendio vanno detratte una serie di spese: 80 euro per il viaggio dalla Bulgaria all’Italia, 100 euro per l’iscrizione nell’elenco dei lavoratori con tanto di rilascio del codice fiscale, 100 euro per l’alloggio, 100 per il vitto e 100 per il trasporto. Si parte con un debito di 500 euro almeno. E non fa niente che l’alloggio è una stalla, che l’acqua è fogna, il mangiare rifiuto, perché questi uomini vengono trattati molto peggio degli animali. «In questa maniera – spiegano gli uomini del tenente colonnello Sergio Rocco che hanno in piedi le indagini – i braccianti vengono messi nell’impossibilità di scappare». E infatti: «Ho lavorato per un mese – ha raccontato sempre D. – senza essere pagato. Mi dicevano che dovevo io dei soldi a loro. Ma non potevo mangiare. Ho chiesto quello che mi spettava. Mi hanno minacciato di morte, hanno sempre i bastoni per le mani. Poi mi hanno dato 20 euro per due giorni, ordinandomi di stare zitto e tornare a lavorare». Venti euro per venti ore di lavoro. Fa un euro all’ora.

Poi è arrivata la Finanza. E, incredibilmente, D. non è scappato. E soprattutto non è stato zitto. Grazie al suo racconto, ieri, i suoi aguzzini sono stati denunciati: il bulgaro che gli ha trovato il lavoro ma anche i due italiani che lo hanno sfruttato e minacciato. Uno ha un precedente con la criminalità organizzata. Sostanzialmente, è uno ‘ndranghetista, non a caso i controlli rientravano proprio in un piano della Prefettura contro la criminalità organizzata. Dunque: schiavo straniero. Schiavista: italiano, mafioso. «Non è una cosa che ci sconvolge» ammette Giuseppe De Lorenzo, il responsabile della Camera del lavoro di Corigliano. «I rapporti tra i caporali e la criminalità organizzata sono strettissimi. Per questo, oggi, per noi è una giornata bellissima». Prego? «Finalmente qualcuno ha detto che il caporale è uno sfruttatore e commette un reato. Anche qui nella piana di Sibari dove invece questo fenomeno non è tollerato ma considerato assolutamente normale». I numeri sono incredibili: «Il 90% della forza lavoro lavora con i caporali. Parliamo di più di 20mila persone. Si guadagna 1 euro a cassa, 25 euro a giornata, da cui vanno sottratti i 5 per il trasporto. E se la legge dice che ne servono almeno il doppio, chissenefrega. Anzi». Anzi: a chi non lavora vengono versati contributi fittizi, in modo tale che possano poi usufruire dell’indennità di disoccupazione. Chi lavora, invece, riceve il pagamento in nero. Oppure comunque per metà del compito effettivamente svolto. «In questi anni denunciano, denunciamo, ma siamo sempre soli» continua De Lorenzo. In realtà una voce forte è quella della Chiesa. Quella del vescovo, don Ciccio Savino, che viene dalla Puglia e non ha mai paura delle parole. Da poco arrivato chiarì subito qual era il suo pensiero sul punto: «L’accoglienza non è mai un problema. Ma una risorsa. Ed è sull’accoglienza che si gioca la democrazia. Quando un fratello immigrato muore in un cantiere o perché è vittima di caporalato io non vedo che le voci si alzano per difendere chi è stato schiavizzato. Allora non al buonismo, non all’ingenuità”.

«Sente questo rumore?» dice un finanziere. È sera da un pezzo, i trattori hanno smesso di trafficare, la piana è affascinante. «C’è molto silenzio ».



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