Il corpo di Regeni «scaricato» vicino a una prigione dei servizi segreti

Il corpo di Regeni «scaricato» vicino a una prigione dei servizi segreti

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IL CAIRO Il punto preciso dov’è stato abbandonato il cadavere di Giulio Regeni è sulla parte superiore di un cavalcavia sull’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria d’Egitto, proprio sopra la pubblicità di una banca. È un luogo ai confini della città, oltre le ville degli ambasciatori con i loro giardini di palme e sullo sfondo delle piramidi e dei palazzi a vetri delle aziende. «Città 6 ottobre», così si chiama il quartiere, è anche la sede di molti media.
Questo non ha aiutato a far chiarezza sul caso. Il 3 febbraio, nove giorni dopo la sua scomparsa, i giornali scrissero che il corpo del ricercatore friulano era stato ritrovato in un fosso sul ciglio della strada e la polizia ipotizzò che fosse morto in un incidente d’auto. Piuttosto che un fosso, si tratta in realtà di una superficie ghiaiosa al di là di una barriera di cemento alta un metro che fa da guardrail. Non ci sono tracce di pneumatici, né di vetri rotti, né di sangue. Non ci sono segni che qualcuno abbia ripulito l’asfalto dalla spessa coltre di sabbia.
Come ha fatto il corpo di Giulio ad arrivare a Città 6 ottobre? «Ci sono tre scenari», ci dice in un fumoso ristorante Malek Adly, giovanissimo avvocato del Centro per i diritti economici e sociali che conosceva Giulio Regeni. «Il primo è che sia stato un atto di criminalità, ma non è possibile perché tra Dokki e Tahrir la notte della scomparsa, il 25 gennaio, c’erano migliaia di forze dell’ordine. Il secondo è che sia stato preso da un gruppo terroristico, ma la sua morte non segue le loro modalità di esecuzione né di rivendicazione. Il terzo è che sia stato rapito dalla Sicurezza di Stato o da un’altra agenzia. Ci sono precedenti in questo senso con egiziani e stranieri». Adly, la cui organizzazione monitora le sparizioni forzate, aggiunge che a Città 6 ottobre «c’è uno dei principali uffici della Amn el Dawla, la Sicurezza di Stato. C’è anche uno dei principali campi della Sicurezza Centrale, chiamato Kilo 10.5, dove vengono portati molti prigionieri politici. Ma nel caso di Giulio, non abbiamo prove né testimoni oculari. Confidiamo nelle indagini, e non parlo di quelle egiziane».
Le indagini sono iniziate, ma intanto ognuno ha i suoi scenari. «Nel caso di Giulio, gli scenari sono tanti», dice in tv il presentatore Tamer Amin. «Potrebbe essere stato un caso criminale, per ragioni che solo Dio conosce; oppure un rapimento con tortura per ottenere un riscatto. Infine, c’è la possibilità che Giulio fosse shemel », ha sussurrato. Significa «sinistra» in arabo, ma indica anche gay, lesbiche o chi si prostituisce. Uno scenario che anche un amico di Giulio, Amr Assad, si è sentito proporre quando è stato interrogato dall’assistente investigatore di Dokki, dopo la scomparsa di Giulio. «”È gay?”, mi ha chiesto. Ho risposto di no. “È etero?”, ha insistito. “Forse bisessuale?”».
Da due giorni al campanello di casa di Giulio, al terzo piano di una palazzina di Dokki, non risponde nessuno. «Non dovreste essere qui. Vi prego fate attenzione», dice un vicino ai giornalisti stranieri. I suoi coinquilini si sono cancellati da Facebook, così come la sua migliore amica egiziana Noura: qualcuno le ha consigliato di lasciare il Paese. Amr Assad, ex ricercatore e docente universitario 54enne, con cui Giulio scambiava consigli d’arte e progettava di scrivere un articolo sui parallelismi tra la caduta dell’Unione Sovietica e la rivoluzione egiziana, è l’unico suo amico stretto a volerci incontrare, in un caffè isolato nel quartiere residenziale di Maadi.
Anche Amr ha il suo scenario. È convinto che la chiave della scomparsa di Giulio vada cercata nei minuti tra le 19.45 e le 19.51 del 25 gennaio. Era diretto a quella che è stata definita una «festa di compleanno». Vicino piazza Tahrir doveva incontrare un amico, ma la festa non era lì: dovevano prendere un taxi per andare altrove. «E non era un vero party. La persona che visitavano è anziana e malata e non riesce a sopportare più di quattro persone per volta». In più, è possibile che a Piazza Tahrir Giulio non sia mai arrivato. L’amico che lo aspettava l’ha chiamato alle 19.45 circa. «Sto uscendo», ha risposto Giulio. Poi ha salutato la fidanzata Valeria, ucraina, con cui chattava religiosamente ogni sera. «Quando torno continueremo a parlare». Si è chiuso dietro la porta di legno dell’appartamento, in una strada tranquilla di Dokki, e si è avviato alla fermata della metro El Behooth. Alle 19.51 esatte, Amr ha provato a chiamare Giulio, avendo trovato un suo messaggio di un’ora prima in cui lo invitava a unirsi alla «festa». Il cellulare era staccato. «Ma nella metro funziona». Non sarebbe più tornato raggiungibile.
Giulio doveva lasciare l’Egitto a marzo. Aveva raccolto tantissimo materiale sui sindacati indipendenti e in particolare sui venditori ambulanti. «Ma devo scrivere almeno un capitolo per farlo vedere alla mia supervisor», diceva ad Amr. «Non è che non voglio tornare, ma voglio avere tutto pronto, così quando verrò, sarà solo per vedere i miei amici». Gli occhi di Amr, dietro la montatura spessa si riempiono di lacrime. «Io gli dicevo: l’Egitto sarà un posto migliore un giorno. Chiaramente non succederà tanto presto».
Viviana Mazza


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