La vittoria di Bernie il socialdemocratico che parla ai cuori

La vittoria di Bernie il socialdemocratico che parla ai cuori

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«Da qui è cominciata una rivoluzione politica — tuona Bernie Sanders raschiandosi la gola affaticata — con la partecipazione di cittadini che non avevano mai fatto politica prima. Il messaggio di queste primarie è che il governo del paese appartiene a tutti voi, non a un pugno di miliardari che finanziano i candidati ». Nella serata del suo trionfo alla primaria del New Hampshire, dopo avere inflitto un distacco umiliante a Hillary Clinton (60% contro 38%), il senatore del Vermont illustra questa “ricetta Sanders” che è la grande novità della campagna presidenziale in campo democratico.

«I progressisti vincono quando c’è un’alta affluenza alle urne, i conservatori vincono quando la gente è demoralizzata e non vota ». È la prima lezione che vuole sottolineare. La sua straripante affermazione ha coinciso con una partecipazione-record alle primarie. Neppure Barack Obama aveva portato così tanti a votare nel 2008. Per il 74enne Sanders il dato è importante, e non solo perché conferma la sua forza di trascinamento, soprattutto verso i giovani che sono solitamente i più astensionisti. È importante perché la “rivoluzione politica” che lui promette agli americani, ha come condizione essenziale proprio un terremoto elettorale, un balzo in avanti così forte nella partecipazione, da riportare una maggioranza democratica sia alla Camera che al Senato, per impedire quella paralisi tra esecutivo e legislativo che ha segnato la presidenza Obama.

In quelle sue parole c’è il primo ingrediente del fenomeno Sanders, la differenza abissale tra lui e la Clinton. Hillary aveva preparato una campagna perfetta a tavolino, ha un curriculum esemplare, nessuno discute la sua competenza. Sanders si presenta invece come il leader di una grande causa, il trascinatore di un movimento per risanare e rinnovare un’America turbata e insicura. Lei parla alla ragione, lui ha una presa formidabile sui cuori e sulle speranze. La divaricazione si ripete nei rispettivi atteggiamenti verso Obama. L’ex segretario di Stato non perde occasione per elogiare il presidente in carica e presentarsi come la continuatrice della sua opera (soprattutto dopo il disastro del New Hampshire, ha un disperato bisogno dell’endorsement dalla Casa Bianca). Sanders “continua Obama” in un senso diverso: ne raccoglie la promessa di cavalcare una mobilitazione permanente della società civile, per cambiare il paese; una promessa che contribuì alle due vittorie di Obama nel 2008 e nel 2012, e poi fu regolarmente disattesa. Qual è il modo migliore per difendere le grandi riforme di Obama (sanità, ambiente, matrimonio gay) da una destra decisa a smantellarle? La Clinton sostiene che la sua esperienza le consente di negoziare accordi bipartisan, proprio quelli che la destra negò a Obama. Sanders punta invece su un ribaltamento dei rapporti di forze, che riduca la destra in minoranza sia alla Camera sia al Senato.

Un “riallineamento” storico di quelle dimensioni riuscì a pochi presidenti: Franklin Roosevelt per i democratici, Ronald Reagan per i repubblicani. È credibile che il prossimo sia il “nonno sessantottino”? I giovani entusiasti che lo sostengono con percentuali bulgare vogliono credere di sì, che sia questa la via maestra al cambiamento.

Il suo programma lo stesso Sanders lo definisce “socialdemocratico”: sistema sanitario nazionale a gestione pubblica per rimediare la riforma incompleta di Obama che lascia troppo potere alle assicurazioni e a Big Pharma; università gratuita; salario minimo aumentato a livelli dignitosi; tasse sulla speculazione finanziaria di Wall Street. I repubblicani e la stessa Hillary sono convinti di poterlo affondare dimostrandone i costi fiscali: un prelievo di tasse di livello europeo sarebbe davvero una rivoluzione socialista, dopo 40 anni di egemonia neoliberista in America. Fu proprio Bill Clinton a decretare la resa della sinistra a quella egemonia, quando affermò il dogma che nessun democratico poteva riconquistare la Casa Bianca con la ricetta “tassa- e-spendi”. Sanders vuole dimostrare il contrario: che la bassa pressione fiscale americana è illusoria, perché sanità e università sono un onere insopportabile per i bilanci privati delle famiglie.

Ora per Hillary diventano cruciali gli appuntamenti ravvicinati del Nevada e del South Carolina. Là c’è un elettorato etnicamente più variegato. La saggezza convenzionale del clan Clinton dice: al Sud e a Ovest si gioca in casa grazie a neri e ispanici. Ma quel modo di calcolare a freddo il peso delle varie constituency storicamente legate ai Clinton, non fa i conti con la capacità di Sanders di creare un movimento, un’emozione nuova, facendo salire a livelli record l’affluenza alle urne. I giovani ispanici e neri potrebbero votare seguendo una mobilitazione generazionale, “l’insurrezione dal basso” che resuscita lo spirito di Occupy Wall Street. Quel movimento fu breve, effimero, ma la crisi che lo scatenò non è dimenticata. Dietro la scommessa di Sanders c’è questa convinzione: che l’impatto della crisi del 2008-2009 sulla condizione di vita, sulla psiche e sull’immaginario di una parte degli americani si avvicina allo shock della Grande Depressione, e come quello può partorire trasformazioni straordinarie, che Obama ha appena accennato.



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