Sharing economy: Uber, Airbnb e le 45 sorelle: «Ue ci tuteli dalle leggi degli Stati»

Sharing economy: Uber, Airbnb e le 45 sorelle: «Ue ci tuteli dalle leggi degli Stati»

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Sharing Economy. Lettera dei 47 colossi americani dell’economia collaborativa e della condivisione al presidente di turno della Ue, l’olandese Marl Rutte. Chiedono di essere tutelati dalle iniziative legislative dei paesi membri tese «a limitare il nostro sviluppo”. Si sta per aprire la gigantesca partita comunitaria della «Digital Single Market Strategy». Ecco come il nuovo capitalismo si sta posizionando nella lunga e complessa trattativa

I quarantasette pilastri dell’economia collaborativa e della condivisione (sharing economy), Uber e Airbnb in testa, hanno preso carta e penna. Al presidente di turno dell’Unione Europea, il primo ministro olandese Mark Rutte, hanno inviato una lettera in cui chiedono di essere tutelati dalle iniziative legislative dei paesi membri tese «a limitare lo sviluppo dell’economia collaborativa a discapito degli europei». I «rappresentanti dell’economia industriale europea della collaborazione», così si firmano, chiedono di sostenere le loro imprese con le «leggi locali e nazionali» perché stanno «rimodellando l’intera catena del valore» (capitalistico». Si auto-definiscono «innovatori» che «sfidano i metodi acquisiti di produzione e di creazione dei servizi» e lavorano per una «più efficiente allocazione della domanda e dell’offerta, promuovendo la micro-impresa e il lavoro flessibile».

La lettera è un appello alla competizione e ai diritti dei consumatori contro i limiti imposti dalla burocrazia a difesa dello status quo che, a parere delle scriventi, danneggerebbe il loro «sviluppo». Traspare l’obiettivo di questa iniziativa inedita: intervenire, con un’operazione di lobbying pubblico, sulla Commissione Europea che ha annunciato lo sviluppo di un’agenda europea dell’economia collaborativa: la «Digital Single Market Strategy». La Commissione dovrebbe formulare le linee guida per sbrogliare i problemi fiscali e della concorrenza creati dal nuovo capitalismo «shareable», in particolare nel settore del trasporto privato: quello delle compagnie e delle cooperative dei tassisti in tutta Europa.

Ci sono ancora poche certezze sull’altro tema in gioco: quello che i colossi americani chiamano «lavoro flessibile». Non è chiaro se l’Unione Europea vorrà intervenire con una normativa a tutela dei freelance — o «independent contractors». Un tema che appassiona i giuristi americani, al punto che una sentenza della Corte federale di San Francisco ha chiarito lo status di dipendenti degli autisti freelance di Uber. Mentre Hillary Clinton, candidata democratica alle primarie per la presidenza Usa, si è espressa in tempi non sospetti a favore di questi lavoratori combattivi che hanno avviato una «class action» contro Uber. Bisogna inoltre considerare che queste problematiche sono del tutto assenti nelle riforme del lavoro, anche di quello autonomo, adottate dai governi europei, per ultimo quello italiano con il cosiddetto «Jobs Act delle partite Iva».

Rispetto alle dimensioni economiche, e di borsa, raggiunte da queste aziende negli Stati Uniti la « on demand economy» in Europa è ancora agli albori. Negli Usa UpWork sostiene di avere 10 milioni di lavoratori; Crowdwork 8 milioni, CrowdFlower 5 milioni. Uber contava su 160 mila autisti nel 2015, il suo concorrente Lyft 50 mila. TaskRabbit 30 mila. Il ventaglio dei servizi offerti è amplissimo e continua ad allargarsi a tutti gli ambiti della vita quotidiana: si va dal car sharing all’affitto di stanze o appartamenti, il servizio da dog sitter a quello delle pulizie a domicilio. Ciascuno di questi ambiti è regolato da normative sulla concorrenza, da contratti di lavoro anche nazionali, legislazioni che riguardano l’impresa, le tasse o la concorrenza.

La lettera delle 47 «sorelle» rivela tuttavia la difficoltà di gestire le differenze legislative tra i paesi che tendono molto spesso a limitare i servizi online, a imporne la chiusura, com’è accaduto con Uber Pop o il pagamento di multe salate. Gli approcci possono essere diversi: Airbnb Italia, ad esempio, intende pagare la tassa di soggiorno. Il 29 gennaio ha stretto un accordo pilota con il comune di Firenze dove la multinazionale gestisce 7500 appartamenti messi a disposizione online dai loro proprietari. Non sarà lo Stato a riscuotere la tassa (in ballo ci sono 10 milioni di euro), ma sarà l’azienda a farlo per poi girare i proventi all’autorità. Una proposta che sembra inaugurare un nuovo ruolo di questi soggetti economici. Un altro esempio può essere utile per spiegare la forza di questa nuova realtà: la sua affermazione sta spingendo la Toscana a varare una legge regionale che equipara le locazioni turistiche alle attività alberghiere.



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