Trivelle, sono 64 piattaforme improduttive il vero nodo. L’Eni: decide il ministero dello Sviluppo

Trivelle, sono 64 piattaforme improduttive il vero nodo. L’Eni: decide il ministero dello Sviluppo

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Hanno nomi domestici ( Davide, Agostino, Simonetta), a volte fanno pensare alla volta stellata (Antares, Luna), o ai pesci (Squalo, Rospo, Vongola, Ombrina) ma per lo più non sono altro che ammassi di ruggine, condomini a tre piani di tubi e gru avvolti in nuvole marine di sostanze inquinanti. Alcune delle vecchie piattaforme offshore sono così vicine alle coste – le sabbie bianche di Vasto, Rimini, Ravenna – e da così tanto tempo inamovibili che gli amministratori locali hanno pensato di riutilizzarle: c’è chi ha ipotizzato di farne un trampolino per i tuffi, chi un lounge-bar con apposita passarella, chi un santuario per i subacquei. Persino un piedistallo per pale eoliche, come fanno sapere dall’Eni, che in progetti simili sarebbe disposta a concederle a titolo gratuito, pur di disfarsene a costo zero.

È proprio questo il punto: i costi di decommissioning o smaltimento e ripristino dei luoghi che la legge mineraria impone ai concessionari di licenza ma che la legge di Stabilità 2016, pur bloccando nuove concessioni entro le 12 miglia, rimanda fino a durata utile del giacimento eludendo così il termine almeno trentennale della normativa europea. La Cassazione e Corte costituzionale hanno valutato ambigua questa formula della «durata utile» e così è stato dato via libera al quesito referendario che questa durata senza termine vuole abrogare.

Se però il 17 aprile vincessero i No o non si raggiungesse il quorum, l’Italia resterebbe l’unico paese europeo con impianti estrattivi prorogabili ad libitum, carta bianca per il governo visto che l’utilità delle concessioni dal punto di vista economico spetta unicamente al Mise, il ministero dello Sviluppo, il dicastero che fu in capo a Federica Guidi con i suoi suggeritori.

Lo conferma pure l’Eni, a cui appartengono 70 piattaforme entro le 12 miglia, 63 in Adriatico, precisando che dispone «di un apposito Fondo di abbandono, un accantonamento dei costi necessari alle dismissioni degli impianti al termine della loro vita produttiva» ma questo termine, ribadisce, spetta definirlo al ministero dello Sviluppo, il Mise.

Uno studio recente di Greenpeace denonimato significativamente «Vecchie Spilorce» e redatto elaborando dati proprio del ministero dello Sviluppo economico elenca 92 piattaforme entro le 12 miglia marine, 5 di supporto e 88 di produzione di gas e petrolio.

Di questi 88, ben 35 impianti non risultano redditizie perché poco o per niente in attività (6 sono classificate come «non operative» e 28 «non eroganti») ma anche le altre, quelle chiamate ancora «estrattive» che qualche goccia di oro nero la tirano su, non producono per la collettività. Sono cioè coperte dalla franchigia che esenta i petrolieri dal pagare le royalty allo Stato e agli enti locali.

Sono 26 in tutto le piattaforme estrattive che restano sotto le soglie delle 50 mila tonnellate annue di petrolio e degli 80 milioni di metri cubi per il gas che esentano dal pagamento delle tasse di concessione, per altro tra le più basse al mondo (le royalty in Italia sono calcolate appena al 7% della produzione). Greenpeace calcola dunque che ci siano almeno 64 rottami petroliferi da smantellare entro le 12 miglia marine. È questo il tesoretto che alcuni fautori del No stanno difendendo in attesa di fondi statali o di progetti locali per bonificare il mare?

Alcune di queste vecchie carcasse presidiano l’orizzonte da 40 o addirittura 50 anni, cioè da ben prima della valutazione d’impatto ambientale obbligatoria dall’87. Amalia A, sulla costa ravennate, sta lì dal ’71. La concessione Eni di Gela data 1959-64. Anche se la maggior parte di queste «vecchie spilorce» fa parte dello skyline adriatico, come tanti piccoli relitti di Rex spiaggiati. Ma non sono mostri innocui.

Greenpeace ha confrontato i dati di monitoraggio ambientale disponibili al ministero dell’Ambiente e il quadro che ne emerge è tutt’altro che buono sia dal punto di vista delle analisi chimico-fisiche dell’acqua marina, sia delle sostanze che si depositano come sedimenti sul fondale, sia infine dalla concentrazione di inquinanti trovati nelle colonie di mitili (cozze) che crescono attaccate ai piloni e che funzionano da bio-indicatori di ciò che si trasferisce nella catena alimentare per arrivare fino alle nostre tavole.

Mercurio e idrocarburi policiclici aromatici spesso (nell’86% dei campioni raccolti) oltre i valori limite e anche metalli pesanti come cadmio, selenio, zinco (nell’82% dei casi). Intorno alla piattaforma Annabella nel 2014 è stato rilevato un tasso di Ipa pari a quelli riscontrati in Galizia dopo l’affondamento della petroliera Prestige.

Questo perché una parte delle piattaforme – ancora operative anche se al minimo – continua a scaricare a mare le acque di produzione o iniettandole nel fondo, previa autorizzazione. Ma anche perché per raffreddare, lubrificare, proteggere l’impianto dalla ruggine si usano sostanze con additivi tossici.

Non per niente la direttiva europea 30/2013, ricorda il Wwf, si basa su uno studio che definisce nei fattori di rischio ambientale le «infrastrutture obsolescenti».



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