Iran, Afghanistan e Pakistan: dove fare sindacato diventa un lusso

Iran, Afghanistan e Pakistan: dove fare sindacato diventa un lusso

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Tra il grande mondo mediorientale, le repubbliche centro asiatiche dell’ex Urss e il subcontinente indiano, tre Paesi – Iran, Afghanistan e Pakistan – rappresentano una sfida aperta tra lavoratori e padronato, che sia rappresentato dall’industria di Stato come in Iran, da landlord e speculatori come in Afghanistan o dal grande settore dell’economia controllato dalle Forze armate in Pakistan. Inoltre queste tre nazioni, oltre alla vicinanza geografica, hanno un elemento comune e cioè sono, seppur a diverso titolo, paesi in guerra.

La guerra, più o meno dichiarata e combattuta in casa o altrove, gioca un elemento fondamentale nel controllo delle istanze di giustizia sociale e dei diritti sul lavoro: leggi speciali, richiami alla difesa della patria, autorità indiscussa delle forze dell’ordine sono infatti tutti elementi che finiscono per governare un mercato del lavoro che con la guerra fa i conti ogni giorno.

Questi Paesi “cerniera” tra mondi diversi – il Medio oriente con i suoi conflitti e i suoi governi instabili e autoritari, l’Asia centrale ex sovietica con le sue centrali di potere autocratiche e l’India che rappresenta l’eccezione democratica asiatica – stanno vivendo una fase di cambiamento importante in cui la guerra resta però un elemento stabile da decenni. Che finisce per gettare una luce oscura sulle loro economie e soprattutto sui diritti negati di chi lavora.

LA TEHERAN DEL DOPO EMBARGO
Il sindacato ha in Iran una storia antichissima: la prima centrale fu fondata infatti un secolo fa ed ebbe poi un ruolo chiave nella lotta allo Scià. Ma da che esiste la Repubblica islamica, il governo ha fatto del sindacato una sorta di istituzione governativa con limiti fortissimi alla rappresentanza e dove la contrattazione viene regolata non attraverso le lotte ma con un negoziato dove alla fine vince sempre il governo.

Dirigenti politici e sindacali vengono arrestati – come nel caso di Ismail Abdi, segretario generale degli insegnanti, imprigionato per aver organizzato «riunioni illegali» – anche se Teheran è un vecchio membro dell’Ilo (l’ufficio Onu del lavoro) di cui ha firmato quasi tutte le convenzioni rifiutandosi di siglare quelle relative alla libertà di associazione (C87) e di organizzazione (C98).

Il Paese, che ha ricominciato a crescere nel 2014, sta conoscendo – dopo la fine delle sanzioni – una stagione di apertura che potrebbe farlo uscire da una crisi che si protrae da anni anche in ragione delle altissime spese militari. Non formalmente in guerra, l’Iran sostiene infatti i fronti sciiti nel mondo (dal Libano alla Siria) che rifornisce di armamenti e consiglieri militari.

KABUL, LA CRISI E I PROFUGHI
L’Afghanistan, con un mercato del lavoro su cui ogni anno si affacciano 400 mila nuovi soggetti, è un Paese in forte crisi (il Pil che nel 2011 cresceva al 6,1%, nel 2014 è calato all’1,3%). La sua economia, sostenuta per oltre due terzi dai finanziamenti stranieri, ha subito un contraccolpo non indifferente dopo l’uscita di scena di oltre 100 mila soldati della Nato e relativi contractor.

La fuoriuscita degli eserciti stranieri, ben più che un problema militare, sembra essere alla base della crisi economica attuale nella quale le commesse sono drasticamente diminuite, il boom edilizio si è fermato, il flusso di valuta pregiata si è ridotto e la moneta ha cominciato per la prima volta a perdere terreno su quelle dei Paesi vicini (l’unico fattore forse che può rilanciare un po’ l’asfittico mercato interno).

La crisi, gestita da un governo fragile e in costante calo di consensi, vede aumentare la piccola criminalità e diminuire le occasioni di lavoro formale in un Paese dominato da un settore informale privo di ogni diritto.

Il sindacato, eredità dei tempi post sovietici, è debole e con scarsa voce in capitolo. È un quadro che spiega l’enorme flusso di migranti afgani alle porte d’Europa (il secondo gruppo dopo la Siria) e il piano europeo che vorrebbe ritrasferirne a casa, via Turchia, almeno 80 mila (quasi la metà degli attuali residenti). Tra Pakistan e Iran, altri 2,5 milioni restano fuori dal Paese in cerca di migliori occasioni di vita.

ISLAMABAD A MAGLIE STRETTE
Il Pakistan ha come l’India una tradizione sindacale importante ma nel Paese islamico, che ha un’altrettanto lunga tradizione di dittature militari e solo da pochi anni conosce governi civili stabili, i diritti sul lavoro, benché abbiano fatto passi avanti, sono ancora molto ignorati specie nel settore informale, una fetta importante dell’economia pachistana.
Il costo della guerra, che in Afghanistan è stato sostenuto dagli stranieri e che in Iran è piuttosto sotto traccia e indiretto, è alla luce del sole: nel 2013 il governo valutava in 100 miliardi di dollari le perdite dovute alla sua adesione alla guerra al terrorismo e ai talebani pachistani. Spese che sono aumentate da quando, oltre un anno e mezzo fa, Islamabad si è impegnata in un conflitto senza quartiere nell’area tribale del Waziristan. Il costo umano del terrorismo è enorme: una media di 2 mila vittime l’anno e due milioni di sfollati interni. Leggi e corti speciali fanno il resto. E nelle maglie strette ci finiscono anche i sindacalisti.



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