La classe operaia si fa in tre, divisa dalla fabbrica digitale Tanti stranieri nei servizi

La classe operaia si fa in tre, divisa dalla fabbrica digitale Tanti stranieri nei servizi

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Non una ma tre. Ormai gli studiosi cominciano a sostenere che di classe operaia ne esiste più d’una e la tendenza alla differenziazione è sempre più veloce. Non basta essere sotto lo stesso capannone per avere una condizione di lavoro omogenea, anzi per molti versi lo schema organizzativo rigido applicato agli operai delle linee di montaggio è più vicino a quello di una cassiera del supermercato o di un addetto al call center di quanto lo sia rispetto alle nuove figure di lavoratore manual-cognitivo che la tecnologia richiede. I cambiamenti investono la qualità del lavoro ma si intravedono processi di distinzione che nel medio periodo investiranno i sistemi di retribuzione, il rapporto con il sindacato e più in generale l’identità. Anche perché nel frattempo si sono sviluppati segmenti del lavoro manuale con caratteristiche in parte nuove dentro settori come la logistica (i facchini) e i servizi alla persona (le badanti) e di conseguenza «le classi operaie sono tre», come sostiene il sociologo Antonio Schizzerotto.

Per ridisegnare una mappa conviene partire dalle novità della tecnologia, dalle imprese che applicano tecniche di lean production e Kaizen per passare a quelle che hanno adottato il sistema Wcm fino ai primi esperimenti di Industria 4.0, tutte richiedono una forza lavoro cognitiva molto coinvolta nei processi di controllo/regolazione delle macchine. In termini quantitativi limitando l’osservazione al settore metalmeccanico (1,5 milioni di addetti) le stime parlano di un 20% medio di dipendenti già entrati nella nuova dimensione professionale, la prima classe operaia. «Sono figure tenute in palmo di mano dai datori di lavoro perché, oltre a interagire con sistemi tecnologici complessi, hanno fatto proprio un concetto di responsabilizzazione — dice lo studioso Luciano Pero —. Quando succede qualcosa questi operai non parlano con il loro capo ma interrogano il sistema e la soluzione che viene fuori fa scuola». Aggiunge il sociologo Daniele Marini: «Quando un imprenditore innova sospinge verso l’alto tutte le professionalità della sua fabbrica. Cambia lo spartito e i codici di comportamento e si crea potenzialmente una chance di mobilità professionale». Il lavoro si libera dall’ideologia e vincono le persone con le loro competenze individuali.

Queste figure operaie già apprezzatissime dovrebbero in un futuro immediato essere ulteriormente motivate ma inquadramenti e paghe non li premiano. Superminimi, ad personam e fuori busta non sono sufficienti a gratificare operai che hanno bisogno di un aggiornamento continuo, sono parte integrante del cambiamento e all’estero vengono pagati di più. Sostiene lo storico dell’impresa Giuseppe Berta: «Spesso macchine da oltre 300 milioni sono controllate da addetti che guadagnano poco più di 1.500 euro e la loro partecipazione non è remunerata».

Non si hanno però notizie di frizioni con il sindacato, prevale un comportamento prudente. Sanno che dovranno giocare le loro chance individuali ma temono opposizioni e veti. L’innovazione riguarda un po’ tutti i settori ed è difficile oggi descrivere una mappa esauriente ma anche industrie come la siderurgia non sono più quelle di una volta. In passato questa prima classe operaia sarebbe stata definita come una aristocrazia del lavoro, oggi stenta a venire fuori un’identificazione altrettanto precisa, a dimostrazione che si tratta di un processo in corso.

La seconda classe operaia è quella che potremmo definire «fordista» con un termine in verità abusato. Sono gli operai delle linee di montaggio che sono cambiate moltissimo in questi anni ma continuano comunque ad avere vincoli organizzativi rigidi e di conseguenza a predeterminare la mansione degli operatori. Gli operai fordisti hanno un salario medio attorno ai 1.350 euro, rappresentano il cuore della partecipazione sindacale e come materia di scambio hanno principalmente la flessibilità. Ogni elemento di discontinuità organizzativa viene di conseguenza negoziato e monetizzato.

L’età media è appena sotto i 50 anni e in questa categoria si possono inglobare altre figure come i carrellisti e soprattutto, pur non legati in linea, gli operai delle Pmi. Che spesso lavorano a una macchina singola ma hanno comunque un raggio di professionalità limitato e bisogni formativi ridotti. A caratterizzare il tipo di impegno più che lo stress della partecipazione a processi complessi prevale il vincolo di star dietro ai tempi-macchina, accompagnato in molti casi dalla pura fatica fisica. Non dimentichiamo che a fronte di tante postazioni che sono state automatizzate restano comunque nella manifattura vaste aree che hanno bisogno dell’intervento umano. O quelle che per tipo di applicazione — penso all’occhialeria — richiedono un’applicazione minuziosa da parte dell’operatore e non sono robotizzabili. È chiaro che questo tipo di classe operaia è più portata a ragionare in termini di egualitarismo e non vede ascensori sociali nei paraggi.

Se volgiamo l’attenzione fuori della fabbrica tradizionale altre figure fordiste le possiamo rintracciare in settori e modalità di organizzazione come la grande distribuzione. Un grande supermercato ne richiede molte e la più conosciuta è la cassiera, legata anch’essa a una sequenza di operazioni piuttosto rigida. La prevalenza delle donne è forte e l’elemento di flessibilità è legato all’orario (part time). Possiamo inserire nella stessa categoria anche gli operatori dei call center? Le opinioni degli esperti divergono perché se è vero che la risposta al cliente è comunque legata a un tempo-standard e quindi a un vincolo rigido c’è comunque l’elemento di interazione con le persone che rende la mansione meno ripetitiva e più ricca. È interessante però annotare come l’operaio delle linee di montaggio, la cassiera e l’operatore call center abbiano tra di loro elementi di omogeneità superiori a quelli che legano l’operaio cognitivo e quello fordista.

Resta la terza classe operaia, il proletariato dei servizi che sta fuori dei cancelli ed è destinato a crescere soprattutto per il peso che assume il settore della logistica. È chiaro che questo segmento riguarda per lo più facchini — le stime parlano di 400 mila — che lavorano alle dipendenze delle cooperative spurie, al 90% sono extracomunitari (marocchini, tunisini, pachistani) e spesso vengono reclutati grazie a un filtro di caporalato etnico. La loro relazione con il sindacato passa attraverso il contratto nazionale di lavoro — tutt’altro che disprezzabile — che però viene frequentemente disatteso con forme di dumping che partono dall’applicazione di un livello di inquadramento inferiore (che li porta a prendere 1.050 euro in media). Stiamo parlando di lavori che anche in virtù degli orari di impiego in cui si svolgono sono di fatto invisibili e infatti non ci sono lavori di indagine che li studino. Un altro segmento di lavoro che fa parte del proletariato dei servizi è composto dalle badanti (stima: 200 mila), una mansione che si apprende in una settimana e «spesso è solo erogazione di sforzo fisico», secondo il sociologo Asher Colombo. Per l’80% sono straniere e il loro fordismo è mitigato però dall’impegno psicologico che richiede la cura dell’anziano e la relazione con i parenti. Cosa dimostrano le tre classi operaie? Che i processi di disuguaglianza sono più estesi di quanto si racconti e che siamo solo all’inizio.

(continua)



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