Il Pil è un paradigma da archiviare

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Non possiamo piú vivere per lavorare e lavorare per consumare, credendo (o facendo finta di credere) al mito che consumando piú beni saremo piú felici. In una frase, Mauro Gallegati – economista tra i più interessanti che abbiamo in Italia – rimette in discussione il paradigma dominante: avere come unico obiettivo la crescita del Pil è miope e fuorviante.

Nel suo pamphlet Acrescita (Einaudi), Gallegati riprende un tema diventato noto negli anni della crisi: ci troviamo in una ripresa senza lavoro. Si chiama jobless. E tutti fanno finta di nulla. E’ un sistema economico ad avere fatto bancarotta. C’è poco da fare: il Pil cresce pochissimo con occupazione invariata. A-crescere, per l’economista, significa che il benessere non dipende (soddisfatti i bisogni primari) dalla quantità di merci a disposizione, ma dalla possibilità di godersi la vita senza compromettere una uguale opportunità alle generazioni future.

Gallegati va alla radice della «scienza triste» e sostiene che l’economia dovrebbe superare i modelli matematici che l’hanno separata dalla natura e dalle leggi della fisica. L’acrescita è un neologismo che porta a rivedere il suo rapporto con la società, insieme a un’interpretazione «multisistemica» del benessere. Di questa pluralità relazionale il Pil coglie soltanto uno degli elementi del vivere bene, l’eu zen che Gallegati invoca in nome di Aristotele. Alla base di questa posizione sul capitalismo c’è una doppia critica: la prima è alla «filosofia del dominio che rischia di cancellare la natura e con essa l’uomo»; la seconda è una filosofia etica basata sulla ricerca della felicità.

La misura del benessere non è un problema matematico, ma è una ricerca culturale che dovrebbe riflettere sui valori, i comportamenti degli individui e le loro relazioni. Il problema è stato evidenziato in una delle raccomandazioni della Commissione Sarkozy, composta tra gli altri da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi: bisogna superare l’idea di un unico indicatore sintetico e andare nella direzione di più indicatori di «progresso sociale». Sembra semplice ma, considerato lo stato del dibattito epistemologico nelle scienze economiche, non lo è affatto.

Nella decostruzione del paradigma dell’«economia assiomatica» la verve polemica di Gallegati raggiunge risultati considerevoli. L’assiomaticità dell’economia standard è fondata sulla razionalità e sulla massimizzazione dell’utilità e si disinteressa della corrispondenza empirica tra assiomi e realtà. La matematica è il giudice unico della bontà delle teorie. Lo è al tal punto che la famosa domanda posta dalla Regina d’Inghilterra sul perché gli economisti non abbiano saputo prevedere la crisi finanziaria scatenata dai mutui subprime resta ancora senza risposta. Così impostata, l’economia può solo autogiustificare i propri assiomi sulla base della simulazione di teoremi, indipendentemente dai loro effetti reali.

Questa disciplina possiede tuttavia una base materiale che corrisponde a quella che Gallegati definisce «l’economia del criceto: il lavorare di più per consumare sempre di più, un modo di vivere che persegue l’accumulazione di merci. Si dovrebbe piuttosto provare a liberare il criceto, aprendo la gabbia per agevolare un cambio di paradigma».

L’economia è una disciplina sociale che unisce storia, matematica e sociologia e mette in relazione attori differenti che interagiscono dentro, ma soprattutto fuori dai mercati. I promotori dell’economia del criceto sostengono la religione della «mano invisibile»: è il mercato che rimedia a tutte le contraddizioni. Ogni vita ha il suo prezzo, tutto è valutato in base alle sue priorità.

Gallegati rovescia questo assunto e sostiene un’economia basata sulla redistribuzione delle ricchezze e delle risorse. Tale redistribuzione può essere ottenuta attraverso la «partecipazione alla vita sociale». L’economista esercita il suo mestiere in questo campo. Per farlo dovrebbe affrontare un radicale conflitto di potere, anche accademico. Oltre alla teoria, dovrebbe trovare anche il coraggio. Merce rara, di questi tempi.

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