Tracce di un’alternativa europea ispirata al federalismo sociale

Tracce di un’alternativa europea ispirata al federalismo sociale

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Per Giuseppe Bronzini, giuslavorista, componente dell’Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa, tra i fondatori in Italia del Basic Income Network, la posizione assunta dalla Germania di Angela Merkel sui profughi in fuga dalla Siria e da altre guerre è lungimirante e da apprezzare, dato anche l’onere economico assunto, con lo stanziamento di sei miliardi di euro – una cifra significativa se si pensa, dice Bronzini, che basterebbe a introdurre il reddito minimo in Italia. Assai meno da apprezzare è la rigidità tedesca assunta nella trattativa con la Grecia, costretta ad accettare un terzo Memorandum particolarmente severo e avvilente. Una ripresa del processo di integrazione europea dovrebbe vedere, non solo da parte della Germania, scelte unificanti e politiche, anche attraverso un ripensamento di quel “diritto dell’emergenza economica”, parallelo a quello dei trattati, introdotto in questi anni, che lede le garanzie della Carta dei diritti fondamentali e non prevede i meccanismi tradizionali di controllo e trasparenza democratica. Secondo Bronzini, «serve una mobilitazione dal basso su temi europei, capaci di costruire un terreno di rivendicazione continentale», andando a prefigurare un federalismo di tipo sociale, recuperando le suggestioni del Manifesto di Ventotene, di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

 

Rapporto Diritti Globali: Qualche anno fa Ulrich Beck scrisse un libro sull’Europa tedesca. Un processo che oggi può essere considerato compiuto?

Giuseppe Bronzini: La mossa della cancelliera Angela Merkel di sospendere il sistema di Dublino e accogliere i rifugiati siriani senza limiti, stanziando la bellezza di sei miliardi di euro per l’emergenza – una somma che potrebbe coprire le spese per il reddito minimo in Italia – dà una leadership morale alla Germania e la mette all’avanguardia dei Paesi che rispettano i valori sui quali si è costruito il sogno europeo e si trovano ben rappresentati dalla Carta di Nizza. Tuttavia, questa mossa va confrontata con la situazione in cui la Germania si trova sul lato delle politiche economiche. Merkel è in difficoltà per avere gestito in maniera rude e insufficiente, meritevole di ulteriori interventi, l’emergenza della Grecia e il terzo Memorandum. Una decisione che l’ha messa in difficoltà rispetto all’Italia e alla Francia, che hanno condotto la trattativa del 12 luglio. Da questa impasse la Germania non è ancora uscita. L’immigrazione è un tema più facilmente concepibile per quanto riguarda le proposte e le urgenze. Il Paese risulta certamente molto rafforzato da questa mossa sull’immigrazione, però questi surplus di credibilità, se vuole riprendere il processo di integrazione europea e di razionalizzazione dei trattati, dovrà convertirlo in proposte razionali sull’economia e sulle istituzioni europee. E soprattutto una revisione dei trattati che sono internazionali e quindi sottratti all’architettura legale dell’Unione.

 

RDG: Nel libro Sogno europeo o incubo?, scritto con Giuseppe Allegri, avete parlato di un diritto dell’emergenza in Europa. Di cosa si tratta e perché si è affermato dopo il 2010?

GB: Il diritto dell’emergenza economica si configura come un diritto parallelo a quello dell’Unione delle comunità e dei trattati. Lo è dal punto di vista formale, poiché alcune norme sui deficit eccessivi, sul pareggio di bilancio, sui meccanismi di aggiustamento della spesa pubblica, sono solo in parte previsti dai regolamenti adottati sulla base dei trattati. Sono previsti dal trattato conosciuto come Fiscal compact, la cui portata è ingigantita perché rende stringenti obblighi già approvati da precedenti trattati. È comunque un trattato internazionale sottoscritto da tutti i Paesi membri eccetto Inghilterra e Ungheria. Poi c’è il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) che ha provveduto al terzo “salvataggio” della Grecia. A queste norme non si applicano le garanzie della Carta dei diritti fondamentali, né sono previsti i meccanismi tradizionali di controllo e trasparenza democratica del Parlamento Europeo che non ha alcun potere. Gli Stati nazionali sono messi all’angolo perché le emergenze economiche sono gestite da organi tecnici come BCE, mentre i controlli democratici sono inesistenti. La Corte di giustizia nel 2012, con l’importante sentenza Thomas Pringle, ha sostenuto che queste norme compromettono i diritti, dato che i trattati internazionali non sono sindacabili dalla Carta che sancisce l’obbligo del rispetto dei diritti fondamentali. Abbiamo una superfetazione istituzionale molto indeterminata, perché i meccanismi di regolazioni della crisi economica sono norme flessibili equivoche dove ci sono spazi per negoziazioni, trattative indeterminate come nel caso greco. Si è affermato un diritto-non diritto, molto duttile ma del quale si sa poco. Il suo sviluppo non è controllabile da nessun tribunale. Siamo fuori dal sistema costituzionale europeo. In questi trattati è comunque prevista una clausola di rientro nel diritto comunitario, ma per effettuarlo bisogna mettere d’accordo tutti gli Stati e avere bene in mente cosa si intende fare. Anche il diritto europeo di gestione delle crisi economiche e del diritto pubblico è altamente indeterminato, sterilizza i poteri di controllo del Parlamento e sottrae potere alla Commissione UE. Per rivedere la materia bisogna avere idee chiare e complesse. Bisogna, ancor prima, decidere se le norme varranno per i 28 Paesi dell’Unione Europea o solo per l’area euro, che in un certo senso verrebbe costituzionalizzata e trasformata in un nucleo politico più solidale. È una scelta che non si ha il coraggio di compiere. Per realizzarla bisognerebbe approvare due trattati: il primo per stabilire la nuova Unione, più coesa, con un governo dell’economia anche allargato alle questioni fiscali e sociali, con un bilancio proprio, finanziato da una tassa sulle transazioni finanziarie. Il secondo è un trattato tra queste entità e gli altri Paesi senza euro per non abbattere il mercato unico europeo. È una decisione molto problematica, sulla quale la classe dirigente europea non sa cosa fare. Angela Merkel, François Hollande o Matteo Renzi parlano di un’unione politica, ma non si sa se sarà nell’area euro o in quella a 28.

 

RDG: L’imposizione del terzo Memorandum alla Grecia nel luglio 2015 è stato uno choc a livello europeo per le modalità in cui è avvenuta e per i suoi contenuti. È un avvenimento che può segnare il futuro dell’Unione Europea?

GB: Ci troviamo in una situazione paradossale: un po’ di ragione e torto l’hanno tutti. Il governo greco ha meno torti dei suoi predecessori, ma la situazione che si è creata in Grecia deriva da un insieme di problemi che difficilmente può essere addebitata a una parte o all’altra. Abbiamo un sistema di trattati che non consente il bail-out, cioè l’assunzione dell’Unione, e per essa degli altri Stati, di una parte del debito dei singoli Stati. Dall’altra parte, un sistema di regole flessibili e indeterminate che ha permesso ai Paesi di sforare i parametri di Maastricht come e quando hanno voluto, in particolare la Germania e la Francia a metà degli anni Duemila e oggi ancora la Francia con il 4,4% di deficit sul PIL. E poi vi sono Stati come la Grecia e l’Italia o la Spagna, in default o quasi, che certamente hanno adottato politiche “allegre” di indebitamento e che oggi si trovano in difficoltà, per colpa loro innanzitutto. Non dobbiamo dimenticare che la Grecia è un Paese che da sempre ha evaso gli obblighi del sistema di Dublino, non offrendo nessun tipo di protezione agli immigrati, è un Paese confessionale, un Paese che non fa pagare tasse agli armatori. Così come l’Italia, non ha una misura di reddito minimo garantito e via dicendo. Alexis Tsipras ha cercato di rimediare a queste situazioni, che non possono però essere capovolte nel giro di pochi mesi; il problema di una governance economica trasparente, democratica e solidale c’era quando è scoppiata la crisi greca e c’è oggi. Non poteva essere risolta in due mesi di negoziato. È rimasto l’eroico tentativo di Yanis Varoufakis e degli altri di cercare di pilotare verso una soluzione-ponte che potesse prefigurare una revisione ordinata e consensuale delle elastiche regole in vigore. Il tentativo rimane, è stato segnalato un problema.

Quello che il governo Tsipras è riuscito a ottenere è una parziale elasticizzazione degli obblighi legati al debito, rinegoziato secondo criteri più favorevoli, e l’avere messo il dito nella piaga da parte dell’opinione pubblica europea sulla necessità di approntare meccanismi di solidarietà paneuropea in grado di evitare sofferenze alle popolazioni, che non sono responsabili di quanto compiuto dai loro governi. Contrariamente a quanto si dice normalmente, a far precipitare la situazione in Grecia non è stata la grande finanza, o i creditori del debito pubblico che ben si sarebbero prestati a un taglio energico del debito. Come dice Paul Krugman, anche i bambini possono capire che se si ha un credito si deve mettere il debitore in grado di pagarlo. Ma è stato l’irrigidimento di alcune arene pubbliche nazionali, in particolare quella tedesca, tra i conservatori e, ancor peggio, i socialdemocratici, che hanno negato ogni concessione fino all’ultimo ai greci. Se si riuscisse a trovare un sistema di gestione delle crisi più trasparente, allora forse simili irrigidimenti potrebbero essere evitati. A me sembra che i tedeschi siano rimasti impauriti dall’idea di dovere soccorrere senza limiti i Paesi indebitati. Mentre ove questi soccorsi fossero previsti e disciplinati in modo più organico e trasparente questa paura sarebbe irrazionale.

 

RDG: Come alternativa indicate quella federale. Di che tipo di federalismo si tratta?

GB: Teniamo a sottolineare che il nostro federalismo è di tipo sociale ed è collegato strettamente ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che, nel Manifesto di Ventotene del 1941, giunsero a prefigurare un’Europa federale che si dotava addirittura di un reddito minimo garantito come elemento della cittadinanza continentale. Normalmente è un punto piuttosto trascurato nel dibattito federalista, che affronta il federalismo solo dal punto di vista delle tecniche di governo, dei sistemi di voto, della rappresentanza politica, mentre il cuore della sovranità nazionale per noi, a oggi, si è rivelato il fatto che gli Stati sono rimasti signori della solidarietà. Sono gli Stati che elargiscono diritti, sussidi e prestazioni sociali in cambio di fedeltà politica, per dirla con Niklas Luhmann. E quindi proprio per questo appaiono gelosi di queste prerogative, perché consentono alle élite nazionali di perpetrarsi come tali. Del resto, il dibattito europeo è ormai incentrato su questo: Jean-Claude Juncker si è candidato come presidente della Commissione UE ed è stato eletto dal Parlamento sulla proposta di un sistema europeo che tuteli contro la disoccupazione. Insomma, il tema è già in agenda e potrebbe così agire senza alterare l’equilibrio di potere tra Unione e Stati membri, assicurando fedeltà dei cittadini alle istituzioni europee, che non apparirebbero solo come controllori e gendarmi degli affari interni ma come garanti del benessere individuale e collettivo.

 

RDG: L’alternativa è tra le forze centriste, alleate nelle grandi coalizioni, contro i populisti di destra: lo scenario visto alle elezioni europee del 2014 oppure tra cinque anni ci sarà uno spazio politico alternativo dove sarà possibile portare a termine una trasformazione molto diversa da quella prefigurata dal cosiddetto “Piano Schäuble”?

GB: La scommessa è costruire esperienze originali di carattere popolare, non sovranista, in alcuni Paesi. In questo senso, Podemos e la coalizione di Syriza, o quel che ne resta, sono una buona allusione a un inizio. Occorre cercare di cementare in chiave europea queste esperienze, provocare i socialdemocratici verso la rottura con lo schieramento conservatore. Perché queste operazioni riescano, serve una mobilitazione dal basso su temi europei, capaci di costruire un terreno di rivendicazione continentale, e, in questo senso, i temi sono: l’istituzione di un reddito minimo garantito continentale, di un sistema di assicurazione europeo contro la disoccupazione che affianchino questo tentativo, inducendo la socialdemocrazia tradizionale a schierarsi a favore della trasformazione. Oggi, purtroppo, dobbiamo riscontrare che il sindacato europeo, che ha oltre 50 milioni di iscritti, è molto lontano da questa prospettiva e totalmente imbrigliato in logiche nazionali. Così come lo sono, troppo spesso, i movimenti radicali in giro per l’Europa. Tutto sommato, resto ottimista sul fatto che questa svolta possa accadere perché, comunque leggiamo gli accadimenti dal 2013, l’Europa si è compiutamente politicizzata. L’entità delle questioni in agenda sono chiare a tutti ed è quindi molto più facile mettere in campo un disegno democratico e sociale di respiro continentale.

 



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