Quando il potere della folla è messo a profitto

Quando il potere della folla è messo a profitto

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L’utopia della «sharing economy» è già al capolinea? La nuova economia di Uber e Airbnb prometteva di portare un necessario supplemento di condivisione paritaria e cooperazione «dal basso» al capitalismo contemporaneo, consentendo a chiunque di trasformare la propria auto o il divano di casa in una fonte di reddito. Per alcuni, come Jeremy Rifkin, avrebbe dovuto essere addirittura «l’unica soluzione» capace di «salvare una specie, quella umana, che altrimenti potrebbe non vedere la fine del secolo». Basta alle vecchie rendite di posizione! Se il trasporto pubblico, la distribuzione del cibo, la fornitura energetica diventano più efficienti mettendo in rete chi offre e domanda beni e servizi in tempo reale, «on demand», e se il tutto può avvenire tramite il semplice click su uno smartphone, il clima è salvo, e le disuguaglianze non potranno che diminuire. Ma è davvero così?

L’impatto ambientale di servizi come Uber e Lyft è attualmente dibattuto dalla comunità scientifica: la questione, ha scritto il quotidiano inglese Guardian, «è urgente, ma senza risposta». E i numeri dei colossi del settore, in realtà niente altro che l’aggiornamento all’era delle piattaforme digitali di modalità di scambio, commercio e impiego precedenti la rivoluzione industriale, ricordano sempre più quelli del capitalismo che si proponeva di superare.

L’amaro risveglio

Uber vale 68 miliardi di dollari, più di Honda, General Motors e Ford; AirBnb 25,5, più – nota Slate – di catene come Marriott e Starwood, a un passo dai prestigiosi Hilton. Con una differenza: Uber non ha vetture e AirBnb non ha case, sono solo «piattaforme tecnologiche». O così dicono, per evitare responsabilità dirette quando qualcosa va storto. Di certo gli effetti «winner takes it all», in cui uno vince tutto o quasi, non si producono in casi isolati dato che, ricorda il magazine online VentureBeat, i colossi che superano il miliardo sono ormai 24, con un incremento del 71% anno su anno e per un valore complessivo di 140 miliardi di dollari.

Ai rischi di una eccessiva concentrazione di potere si aggiungono le questioni sociali e del lavoro: che ne è della miriade di dati che raccolgono i colossi della «sharing economy» su ogni aspetto della nostra vita? Per molti, otto su dieci negli Stati Uniti secondo il Pew Research Center, le piattaforme di condivisione forniscono forme di impiego flessibile, per «arrotondare»: ma con quali diritti? E chi tutela davvero la sicurezza dei clienti, il loro essere al riparo dalle discriminazioni automatiche dei sistemi reputazionali su cui si basano – ammesso funzionino?

Le risposte scarseggiano, i freelance somigliano sempre più a dipendenti mal retribuiti e senza tutele, e le dinamiche monopolistiche tipiche dell’era digitale sembrano replicarsi anche nel dominio del «peer-to-peer». Per Farhad Manjoo del quotidiano statunitense New York Times, siamo già alla «fine del sogno dell’on demand», l’era breve in cui qualunque startup ha pensato di poter essere un’altra Uber. E invece, scrive, i prezzi salgono, le app chiudono, e gli investitori cominciano a chiedere conto dei miliardi incautamente investiti. Il risultato è che le quotate dell’economia della condivisione hanno perso complessivamente il 44% del loro valore, nel 2015.

Coopero dunque resisto

La «sharing economy» è una bolla che sta per scoppiare? «Concordo con Manjoo», racconta al Manifesto Trebor Scholz, autore di Uberworked and Underpaid: How Workers Are Disrupting the Digital Economy (Polity): «ciò che stiamo scoprendo è che l’economia on demand sta funzionando solamente in settori particolari come i trasporti e forse le pulizie domestiche e la consegna di cibo. Molte altre idee sembrano avere fallito». E allora non stupisce che in molti provino vie alternative, ripensando l’idea di condivisione stessa e riportandola alla sua accezione originaria, in cui cioè la ricchezza prodotta è più equamente distribuita, e a trarne beneficio sono le comunità locali invece che colossi planetari il cui unico reale desiderio, ha scritto il ricercatore politico Evgeny Morozov, è proseguire la dottrina neoliberista di Friedrich von Hayek sotto le mentite spoglie della retorica della cooperazione tra pari.

La presa di coscienza sugli eccessi dei «grandi» è dunque insieme un modo per addentrarsi nelle forme di sperimentazione messe in atto dai «piccoli», e dai tanti che stanno provando a dimostrare che un’altra sharing economy è possibile. La startup israeliana LaZooz, per esempio, si basa sul principio di decentralizzazione della criptomoneta, Bitcoin, per dare vita a un servizio analogo a Uber ma senza proprietà né server centrali: «la fine del capitalismo», proclama, «è cominciata». Altri, come il mercato equo Fairmondo, provano la strada delle cooperative – una via battuta ormai da centinaia di progetti, dice Scholz, che per il fenomeno usa il termine «cooperativismo delle piattaforme». Che significhi è presto detto: software non proprietario ma libero, «proprietà collettiva», trasparenza e «governance democratica».

La rivale di Uber, Juno, si propone per esempio di fare dei piloti i reali proprietari dell’azienda, chiedendo inoltre il 10% su ogni transazione, non il 20-25%. Secondo Arun Sundararajan, docente della New York University e autore del recente ma fondamentale The Sharing Economy (MIT Press), siamo all’alba di un vero e proprio «crowd-based capitalism», una forma di capitalismo il cui centro è non più l’impresa ma la folla. E le conseguenze saranno non indifferenti per l’idea stessa di «lavoro»: «Piattaforme diverse tenteranno modelli diversi del rapporto tra istituzioni e individui», scrive al manifesto via mail. «Alcuni funzioneranno, altri no, ma ciò che avremo sarà probabilmente una serie di nuove modalità di relazione che affiancheranno l’impiego a tempo pieno e costituiranno i nuovi modelli del lavoro nel XXI secolo».

Sundararajan è ottimista. Per lui il passaggio al capitalismo delle masse connesse sarà «fondamentalmente benefico» per i singoli partecipanti, perché «ne muta il ruolo da fornitori di lavoro a proprietari». E se abbiamo paura, prosegue anticipando le critiche, è solo perché «non abbiamo ancora passato decenni ad avvolgerlo in un buon contratto sociale».

Piattaforme di tutto il mondo unitevi

Insomma, se il lavoro iper-precario dell’era Uber è senza diritti è solo perché non abbiamo ancora avuto tempo di combattere la battaglia che sindacati e lavoratori hanno condotto in favore di quello stabile nelle precedenti. Il punto semmai è che va fatto subito: «Dobbiamo dare rapidamente ai lavoratori indipendenti la stessa stabilità di reddito, le ferie pagate, l’assicurazione, i benefici di cui godono i lavoratori a tempo pieno». La guerra normativa in corso in tutto il mondo per regolamentare il settore testimonia che qualcosa si sta muovendo. E del resto, aggiunge Scholz, non c’è una dicotomia netta e mutualmente esclusiva tra «buoni» e «cattivi» della sharing economy. «Perfino il modello Uber ha degli effetti positivi», dice, ipotizzando che «la situazione ideale sarebbe un mondo in cui c’è un panorama diversificato in cui cooperative di piattaforme riescono a sopravvivere come alternative ai grossi player aziendali».

Il fermento è innegabile: Scholz racconta dell’interesse di varie istituzioni, comprese quelle italiane, e del moltiplicarsi di iniziative per promuovere le nuove forme di cooperazione connessa in tutto il mondo, da Berlino a Londra fino a Vancouver e Sidney. A New York, il prossimo novembre, si tenterà poi di porre le basi per un consorzio di cooperative delle piattaforme, con il supporto di una vasta rete di università e altre organizzazioni. L’idea è che possano e debbano dare il loro contributo, a partire dalla realizzazione di «città condivise». Ma non è detto quella tra profitto e cooperazione sia una convivenza possibile. «La lotta in corso è per quale visione del futuro debba prevalere», conclude il docente della New School.

Il nodo del lavoro

Non mancano tuttavia i pessimisti. Per Nick Srnicek, presto in libreria con Platform Capitalism (Polity), il nuovo cooperativismo «ha di fronte a sé sfide impegnative». Prima di tutto, c’è il problema – annoso – di essere una cooperativa in un sistema capitalista: «Per sopravvivere in un ambiente il cui fulcro è il profitto, bisogna comportarsi come capitalisti», risponde via mail: «tagliando i costi, e aumentando lo sfruttamento dei lavoratori, per esempio». Ancora, «la sfida aggiuntiva delle piattaforme cooperative è che si basano su effetti di rete»: più sono gli utenti, maggiore è il loro valore per tutti. Tradotto: sono i pesci grossi a produrne in quantità non replicabili dai pesci più piccoli. «Per non parlare dell’enorme disparità di risorse: Uber al momento sta perdendo un miliardo di dollari in Cina», provoca Srnicek, «solo per battere un concorrente. Come potrebbe opporsi a una simile mossa una piattaforma cooperativa?»

Insomma, ottenere il supporto di piccole comunità non garantisce di essere competitivi con i sovrani del mondo della condivisione. Anche l’utopia di fare della sharing economy il viatico verso il «post-capitalismo», come vorrebbero autori come Paul Mason, sembra dunque sul punto di svanire. O quantomeno, non passare di qui. «Man mano che il capitalismo avanzato diventa sempre più dipendente dai dati per generare profitti e controllare settori industriali», conclude al contrario Srnicek, «le piattaforme diverranno piuttosto il modello per ogni azienda che voglia essere leader».

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