Le troppe narrative della crisi siriana

Le troppe narrative della crisi siriana

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Chi ha fatto fallire la tregua siriana? Ognuno ha la sua risposta, come ognuno ha la ricetta per la crisi. Un buco nero nel quale uno dei paesi leader del Medio Oriente è stato trascinato. Sono passati cinque anni dalle prime manifestazioni di piazza contro il presidente Assad: non chiedevano un cambio di regime ma libertà politica, riforme, la fine del partito unico.

Subito quelle proteste sono state dirottate, alla stregua delle altre primavere arabe e quello a cui si assiste in questi mesi non è che la ripetizione degli eventi del 2011.

Di compromessi politici non si parla, nonostante sia la sola via d’uscita alla distruzione definitiva della Siria. Riferimenti non esistono: non lo è Assad, indebolito e arroccato sulla testarda volontà di tornare ad un passato che non c’è più; non lo sono le opposizioni, quelle moderate poco rappresentative e quelle islamiste con un’agenda conservatrice e settaria.

A muovere i fili delle diverse prese di posizione sono gli attori internazionali, da anni impegnati in un teatrino disgustoso: la falsa ricerca di un dialogo che nessuno ha interesse a realizzare perché nessuno è disposto ad un minimo compromesso.

Cadono in questo silenzio assordante le parole del presidente Obama che ieri all’Assemblea Generale dell’Onu ha attaccato Putin («Non può far rivivere la vecchia gloria con la forza») e quelle del segretario generale Ban Ki-moon che ha imputato ad Assad il numero più alto di morti civili. E allora la stampa continua a elencare la lista di accuse, rimproveri, difese e attacchi senza soluzione di continuità. Le stesse dichiarazioni, da anni.

Le ultime in ordine di tempo sono lo specchio delle diverse narrative: la tregua è ufficialmente collassata, ad una sola settimana dall’accordo, durante il quale l’unico vero segno di distensione – la consegna degli aiuti dell’Onu – non c’è stato.

Ieri gli Stati Uniti hanno incolpato la Russia, «incapace» di tenere a bada il governo di Assad che avrebbe bombardato un convoglio della Mezzaluna Rossa che stava raggiungendo Aleppo con una trentina di camioni pieni di aiuti umanitari. Una ventina di missili gli sono piovuti sopra uccidendo 20 civili che scaricavano i camion. Vite perdute, aiuti essenziali per 78mila persone a Uram al-Kubra in fumo. Subito giunge la reazione furiosa delle Nazioni Unite: la consegna degli aiuti è sospesa fino a quando non ci sarà garanzia reale di sicurezza.

Mosca nega: la responsabilità non è da imputare né a russi né a governativi siriani. Secondo il portavoce del Ministero della Difesa Konashenkov, l’esercito russo ha «accuratamente studiato i video dei cosiddetti attivisti sul posto e non ha trovato i segni di alcuna munizione che avrebbe colpito il convoglio. Quello che i video mostrano sono le dirette conseguenze di un incendio cominciato in un modo strano, proprio mentre i miliziani [delle opposizioni] erano impegnati in una grande offensiva su Aleppo».

Ma la tregua era già morta sabato sera quando i jet Usa, da qualche tempo lontani da Deir Ezzor, roccaforte dello Stato Islamico, ne hanno bombardato la periferia proprio mentre l’esercito di Damasco stava avanzando contro l’Isis. Errore, come dice Washington, o atto intenzionale: in entrambi i casi il raid è il segno della totale assenza di coordinamento internazionale contro il “califfato” e della volontà di gettare le basi per un dialogo politico.

E si continua a combattere: ieri gli scontri terrestri sono ripresi a sud ovest di Aleppo, intorno alla base militare di Ramousa, negli ultimi mesi al centro della battaglia per la città. Chi la controlla, controlla Aleppo. Numerosi gruppi di opposizione, per lo più vicini alla galassia islamista capitanata dall’ex al-Nusra, oggi ribattezzatosi Jabhat Fatah al-Sham, non hanno mai abbassato le armi.

Una realtà che rende poco credibili le accuse statunitensi alla Russia: nemmeno gli Usa, sponsor di “ribelli” oggi legati a doppio filo agli ex qaedisti, sono in grado di gestire le milizie sul terreno, le più feroci e ben armate che non hanno grosso interesse a negoziare con Assad. Perché Assad è il loro target principale, insieme alla nascita di un’entità statuale nuova, molto simile ad un califfato sunnita basato sulla legge islamica.

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