La Russia vince ad Aleppo

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Siria. Gli Usa senza più alternative, tra Assad e un’opposizione sunnita radicale, dicono sì al piano russo e poi cambiano idea

Damasco avanza nel cuore di Aleppo est, la Russia impone diktat, la strategia Usa si scioglie come neve al sole. Sullo sfondo il silenzio assordante di Bruxelles, fuoriuscita dalla crisi siriana pagando miliardi di dollari alla Turchia di Erdogan per fermare i profughi disperati, e dell’Onu che si limita a proporre risoluzioni nate già morte.

Il voto di lunedì sera in Consiglio di Sicurezza sulla mozione che chiedeva una settimana di tregua nella città siriana è stato archiviato dal veto di Russia e Cina. Un veto prevedibile visti i piani che Mosca ha per Aleppo, portati avanti con jet e negoziati sottobanco con opposizioni reticenti.

Quanto avviene oggi è diretta conseguenza della decisione dell’Occidente di abdicare, di farsi da parte nella ricerca di una soluzione politica ad un conflitto che ha volutamente acceso come parte della redifinizione di confini e zone di influenza in Medio Oriente, processo cominciato nel 2003 con l’invasione dell’Iraq.

Con le bombe che stravolsero Baghdad 13 anni fa, con la caccia alla testa di Saddam Hussein e la distruzione dello Stato iracheno, gli Stati Uniti e i suoi alleati – Londra, Roma, Madrid, Parigi, ma anche il Golfo – hanno pavimentato la strada verso l’ennesimo colonialismo che oggi esplode in tutte le sue contraddizioni. Perché è ricomparsa la Russia che ha archiviato l’imperialismo monocolore Usa e ha imposto i propri interessi, facendo da calamita per quei paesi tagliati fuori dalla rete di alleanze statunitense.

Le lacrime di coccodrillo di fronte al dramma di Aleppo e alla prossima vittoria del nemico Assad lasciano il tempo che trovano. A versarle è chi ha finanziato ribelli di sordida fama, chiaramente pochi interessati ai valori democratici millantati da Bruxelles e Washington. Armi e denaro hanno riempito le casse di milizie salafite, islamiste, qaediste, ma anche di gruppi apparentemente liberali e poi pronti a saltare sul carro di al Qaeda.

Oggi quelle contraddizioni – ancora più eclatanti guardando alla vicina Mosul, dove gli islamisti sono bollati come il male quando in Siria vengono più che tollerati – massacrano Aleppo. Le opposizioni non intendono cedere nonostante l’avanzata dei governativi: ieri altri quartieri di Aleppo est (Shaar, Dahret Awad, Juret Awad, Karam al-Beik e Karam al-Jabal) sono caduti in mano a Damasco, che ormai controlla il 70% di Aleppo est e si trova a poche centinaia di metri dal cuore della Città Vecchia.

Mosca può così permettersi di dire no alla tregua, ribadendo che sarà indetta solo quando i “ribelli” si arrenderanno. Per questo ha preparato un piano con Washington, un accordo di massima su tempi e vie di evacuazione dei miliziani a Idlib che ieri la Casa Bianca ha però ritirato: «Ora hanno un nuovo piano – ha detto il ministro degli Esteri russo Lavrov, che bolla come «inaffidabile» la controparte – È un tentativo di dare tempo ai miliziani, riprendere fiato e rifornirsi».

Le stesse opposizioni ieri hanno rigettato la proposta di resa. Alla testa del fronte anti-Assad, compattato dall’ultima offensiva governativa sotto la nuova bandiera dell’Esercito di Aleppo, ci sono salafiti e jihadisti che con una mano accolgono gli aiuti esterni e con l’altra rifiutano di seguire le indicazioni Usa. Mosca è convinta dei legami con l’Occidente, intessuti via Turchia, e ieri ha apertamente accusato le intelligence avversarie di aver fornito alle opposizioni le coordinate dell’ospedale da campo russo appena arrivato ad Aleppo ovest e subito colpito dai missili dei “ribelli”.

Gli Stati Uniti negano le accuse ma la fragilità della loro non-strategia regala spazio e tempo alla Russia. Lo spiegano bene le parole del segretario di Stato Kerry che ieri rimpiangeva l’occasione del settembre 2013 quando Obama bloccò in extremis l’intervento contro Assad («Ci è costato moltissimo») e le dichiarazioni di lunedì, al suo ultimo meeting Nato prima dell’avvento del nuovo presidente Trump: «L’angoscia [occidentale] si manifesta nelle politiche in tutto il mondo».

Perché Usa e Nato (sgretolata dal doppiogioco dell’alleato turco) hanno subito l’avanzata russa, prima diplomatica e poi militare, per arrivare alla fine del secondo mandato dell’amministrazione Obama senza prospettive di vittoria. Tutto finirà nelle mani di Trump, alla cui entrata in carica la Russia vuole arrivare con un Aleppo senza ribelli.

Con una Casa Bianca senza più alternative – Assad da una parte e una compagine sunnita radicale dall’altra – il tycoon potrebbe optare per la via più semplice: combattere l’Isis in coordinamento con Putin, lasciando il caos siriano ai russi. Con il rischio, però, di veder rafforzato il suo spauracchio, l’Iran.

Nella capitale del nord, ormai ombra della bellezza abbagliante persa nel 2012, si muore ogni giorno: 340 i civili uccisi a est dal governo, 80 ad ovest dai “ribelli”. Alla morte si aggiunge la consapevolezza dei sopravvissuti: serviranno anni per ricostruire le normali relazioni sociali, politiche ed economiche che hanno caratterizzato la Siria, per rimbastire rapporti di fiducia e mutuo rispetto, per ricucire le ferite di sfollati, rifugiati e civili disumanizzati, trasformati in meri scudi umani.

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