Aumentano disuguaglianze e povertà, continua la lotta di classe dall’alto

Aumentano disuguaglianze e povertà, continua la lotta di classe dall’alto

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Il quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) pubblicato ieri dall’Istat conferma la relazione politica asimmetrica prodotta dalla crisi iniziata nel 2008. Nel 2015 in Italia le diseguaglianze sono cresciute mentre continua la concentrazione della ricchezza – non da lavoro, ma da capitale – in una parte ultra-minoritaria della popolazione. I dati Bes vanno letti in una cornice globale perché confermano l’esistenza dello squilibrio economico più grande dagli anni 1910-1920 a oggi. Per l’economista Thomas Piketty, questa è la premessa per la costruzione di una civiltà dominata da traders, super-ricchi, multinazionali che dominerà la scena globale da oggi al 2050-2100.

Il rapporto Bes aggiunge alcuni decisivi elementi alla lotta di classe dall’alto – la definizione è di Luciano Gallino. Anche se il Pil cresce, non modifica le diseguaglianze. La crescita c’è, ma non si vede, se non in un piccolo recupero del potere di acquisto. L’elemento che produce questa separazione tra i dati macroeconomici e la materialità delle condizioni di vita è il lavoro precario. L’11,7% delle persone vive in famiglie dove i redditi sono aleatori.

A Sud la percentuale quasi raddoppia: il 20,3%. Ci troviamo in una situazione paradossale: da un lato si riduce la quota di famiglie in condizioni di vulnerabilità finanziaria (da 4,8% nel 2012 a 3,6% nel 2014) e il numero degli indebitati; dall’altro lato aumenta la quota di persone a rischio di povertà dal 19,4% al 19,9%, mentre la povertà assoluta colpisce 4 milioni e 598 mila persone e interessa le coppie con due o più figli e le famiglie di cittadini stranieri.

La crescita che è tornata a fare capolino nell’economia – producendo grandi illusioni soprattutto nel governo Renzi travolto dal referendum del 4 dicembre – non produce occupazione stabile, né redditi duraturi. In altre parole non incide e, anzi, aumenta le disuguaglianze. Nel 2015 il loro valore è identico a quello del 2013, il più alto dell’ultimo decennio. Rispetto alla media europea, l’Italia è il paese dove le diseguaglianze sono cresciute di più da quando è iniziata la crisi: nel 2015 il rapporto tra il reddito percepito dal 20% della popolazione con i redditi più alti e il 20% con i redditi più bassi è pari a 5,8 in Italia, contro una media continentale del 5,2.

L’economista Andrea Fumagalli parla di «trappola della precarietà»: più aumenta il lavoro precario e senza tutele, più aumentano povertà e diseguaglianze. Questo circuito si auto-alimenta e crea i working poors, i lavoratori poveri. Per Chiara Saraceno sono di due tipi: chi lavoro con i voucher (1,380 milioni nel 2015) e tutti coloro che prendono un salario al di sotto di quello minimo. E poi ci sono i lavoratori poveri su base familiare. Le famiglie monoreddito sono numerose, non esiste un significativo sostegno per l’occupazione femminile, né servizi o trasferimenti universali per sostenere i costi dei figli. Manca un sistema di tutela universale contro il precariato e la disoccupazione di medio e lungo periodo.

E il governo Renzi ha follemente sprecato 10 miliardi all’anno per il bonus degli 80 euro che non è andato né ai precari, né ai lavoratori autonomi. Una misura concepita per discriminare i lavoratori (dipendenti contro precari e autonomi) e aumentare le diseguaglianze tra le generazioni. Lo stesso criterio ha ispirato il Jobs Act.

Com’è noto, la flebile crescita dell’occupazione è stata causata dagli 11 miliardi di sgravi pubblici triennali alle imprese. Soldi che hanno «drogato» un mercato dove non c’è domanda. Sono stati assunti, in maggioranza, lavoratori over 50 (+2%) – trattenuti al lavoro dalla riforma Fornero – e penalizzati gli under 49. L’occupazione è cresciuta tra i giovani 20-34enni (+0,2 punti) perché più intensa è stata la produzione di lavoro precario. Le mance renziane ai privati, i bonus populisti alle categorie, hanno contribuito all’aumento delle diseguaglianze.

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