Jobs flop. Poletti ministro reo confesso

Jobs flop. Poletti ministro reo confesso

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Il governo Gentiloni è nato ma i primi ad augurargli corta vita sono proprio i ministri che lo compongono. Come se nulla fosse, mentre in aula i senatori sfilano per esprimere il loro voto, il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, nel salone adiacente, disserta con i giornalisti. «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare prima del referendum sul Jobs Act e per legge il referendum verrebbe rinviato».

E’ come ammettere che tra le urgenze del governo neonato c’è il tirare le cuoia al più presto per impedire agli elettori di esprimersi sulla più impopolare tra le riforme del governo Renzi se l’11 gennaio la Corte costituzionale giudicherà ammissibili, come sembra probabile, i tre referendum sul Jobs Act promossi dalla Cgil.

Le reazioni sono comprensibilmente fragorose. Susanna Camusso, segretaria Cgil, replica secca: «Immagino che Poletti abbia una sfera di cristallo e faccia anche le funzioni del capo dello Stato. Ma con i problemi bisogna confrontarsi invece di pensare a rinviarli». Loredana De Petris, capogruppo di Sinistra italiana al senato, trova la sortita «inaudita e gravissima: vogliono impedire agli elettori di votare». Per Gaetano Quagliariello trattasi di «strage del senso istituzionale» e persino l’Ncd Fabrizio Cicchitto trova il progetto di Poletti «del tutto inaccettabile e per certi versi suicida».

Il ministro bersagliato si difendo derubricando le sue parole a «ovvia constatazione», ma è una linea di difesa inesistente. Il fattaccio è davvero un’enormità. Difficile trovare negli annali della Repubblica un altro ministro pronto ad ammettere che nella strategia del governo figura lo scioglimento delle camere per impedire al popolo di esprimersi. Ma per il governo evitare il referendum è davvero una priorità assoluta e allo stesso tempo un’opportunità.

La bocciatura del Jobs Act spedirebbe Renzi definitivamente in pensione, cancellando i suoi sogni di rivincita. Ma impugnare la necessità di difendere una riforma reclamata dall’Europa pare anche un ottimo argomento per forzare la mano al capo dello Stato, costringendolo a indire le elezioni senza perdere tempo con quella «armonizzazione» delle leggi elettorali che il presidente stesso ha definito «imprescindibile».

Renzi ha fretta. Vuole votare con la legge che si troverà tra le mani a fine gennaio, quale che sia, e ormai non corre più per mettere a frutto il 40% di Sì referendari ma per salvarsi. Sente che più tempo passa meno probabilità ha di tornare in scena, anche nel suo partito. Tracce della sua disperata pressione si rintracciano anche nella replica di Paolo Gentiloni al Senato. Il Conte non va oltre quanto detto nel discorso iniziale, forse si allarga un po’ più nell’elogiare Renzi e il suo finto bel gesto.

Tra le righe, però, una differenza tra il discorso di martedì a Montecitorio e la replica di ieri c’è. Il presidente del consiglio ripete che la definizione della nuova legge elettorale spetta al Parlamento, ma sottolinea molto più di quanto non avesse fatto in precedenza che «il governo non resterà alla finestra». Interverrà. Soprattutto «spronerà». Non sono parole spese a caso. Il neopremier è molto corretto, estremamente attento a non farsi sfuggire una parola sul tipo di legge che preferirebbe. Il senso del messaggio è solo che il governo premerà per fare in fretta.

Non sono segnali consolanti per l’esecutivo che ieri, come si conviene a un governo clone, ha ottenuto la fiducia del Senato con gli stessi voti presi a suo tempo da Matteo Renzi: 169. Sono arrivati in extremis tre voti inattesi o attesi solo a metà: quello del senatore a vita Mario Monti e quello dei due ex Sel che non hanno aderito a Sinistra italiana, Dario Stefàno e Luciano Uras. «Abbiamo ricevuto garanzie per il Sud», spiegheranno poi, ma è più probabile che ad accelerare la marcia di avvicinamento verso la maggioranza sia stato un calcolo politico: scommettono cioè sul tentativo di Giuliano Pisapia, al quale offrono così una sponda all’interno del Parlamento.

Nessun voto invece da parte dei verdiniani, ufficialmente perché non hanno ottenuto quel che chiedevano, il ministero della Sanità. Ma sono in molti a sospettare, e qualcuno anche ad ammettere a mezza bocca, che questa volta il soccorso fiorentino di Denis non servirà a salvare il governo ma a finirlo.



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