Lo sporco mestiere delle armi

Lo sporco mestiere delle armi

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Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione, promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un capitolo dedicato alle grandi questioni internazionali e ai diritti umani. Il quadro globale è segnato in maniera crescente da guerre, conflitti armati e interventi militari. Tragedie che ne innescano a catena altre, a partire dal dramma dei profughi e dai flussi migratori che stanno mettendo in crisi il quadro e le istituzioni europee, incapaci di strategie adeguate, che non siano quelle disumane dei respingimenti e dei muri.

Proponiamo qui un estratto, tratto dalla sezione Il Contesto del terzo capitolo del Rapporto sui diritti globali.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse.
Qui  sono invece scaricabili l’indice generale del volume, la prefazione di Susanna Camusso e l’introduzione di Sergio Segio.
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Il mestiere delle armi

Ll’industria della sicurezza delle frontiere è dominata dalle maggiori industrie belliche. Il mercato delle armi infatti continua a essere florido. L’esportazione di armamenti, in particolare le vendite al Medio Oriente e al Nord-Africa da dove la maggior parte dei rifugiati fugge, è in piena espansione. Secondo dati forniti dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la spesa militare globale nel 2015 è stata stimata in 1.676 miliardi di dollari, un 1% in più in termini reali che nel 2014. La spesa totale è il 2,3% del PIL globale.Ai primi cinque posti per spesa militari ci sono: Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, Russia e Regno Unito.

Le esportazioni di armi verso il Medio Oriente sono aumentate del 61% nei periodi 2006-10 e 2011-15. In particolare nel 2015 l’Arabia Saudita è stato il maggior importatore di armi della regione e si è posizionata al terzo posto finora occupato dalla Russia. In Medio Oriente, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Qatar, Algeria, Israele e Turchia sono tra i primi venti Paesi importatori di armi. Ma l’aumento più consistente del 2015 nella spesa militare della regione l’ha registrato l’Iraq: 13,1 miliardi di dollari nel 2015 (più 35% rispetto al 2014 e più 536% rispetto al 2006).

Un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico “The Guardian”, rivela che Paesi dell’Europa orientale hanno autorizzato la vendita di armi per oltre 1,2 miliardi di euro a Paesi mediorientali vincolati alla vendita di armi alla Siria. Migliaia di AK-47, mortai, lanciarazzi, armi anti carrarmati e mitragliatrici sono state inviate alla penisola arabica e a Paesi confinanti con la Siria attraverso i Balcani, la nuova rotta delle armi.

I giornalisti di Balkan Investigative Reporting Network (BIRN) e l’Organised Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), autori di un’inchiesta durata un anno, sono riusciti a stabilire che le armi sono state inviate da Bosnia, Montenegro, Serbia, e dai membri della UE Repubblica Ceca, Bulgaria, Croazia, Slovacchia e Romania. Destinazione finale, secondo gli autori, quasi esclusivamente la Siria. Gli otto Paesi sopraindicati avrebbero autorizzato dal 2012 la vendita di armi e munizioni a Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Turchia, mercati chiave per Siria e Yemen. Se in passato la regione non aveva una tradizione di acquistare armi dall’Europa dell’Est, in questi ultimi anni la tendenza è cambiata, con vendite record nel 2015. Materiale video e fotografico, soprattutto pubblicato dai social media, è stato analizzato dai giornalisti che hanno identificato le armi vendute dall’Europa dell’est in mano di gruppi dell’Esercito Libero Siriano (sostenuti dall’occidente) ma anche di gruppi islamici come Ansar al-Sham, Jabhat al-Nusra, Islamic State e fazioni che combattono per il presidente siriano Bashar al-Assad. Anche le forze sannite nello Yemen si sono beneficiate delle stesse armi (Angelovski, Marzouk, Patrucic, 2016).

Dall’Unione Europea, per bocca della rapporteur sulle armi del Parlamento Europeo, Bodil Valero, è arrivata la conferma, timida, che probabilmente alcune delle transazioni violano le leggi europee e internazionali sulla vendita ed esportazione delle armi.

Parole che suonano poco credibili, visto che tra il 2005 e il 2014, la UE ha concesso licenze per esportazioni di sistemi militari verso il Medio Oriente e Nord Africa per un valore di oltre 82 miliardi di euro. A febbraio 2016 il Parlamento europeo ha votato a favore dell’embargo contro l’Arabia Saudita in materia di vendita di armi, ma il Consiglio d’Europa, che decide su queste questioni, non ha compiuto alcuna azione. Gli stati membri della UE hanno così continuato ad approvare licenze per l’esportazione di armi verso l’Arabia Saudita e altri Paesi del Medio Oriente. Nel 2015 il gigante BAE Systems (la compagnia di armi più grande d’Europa) ha ricevuto il 21,8% delle sue entrate dall’Arabia Saudita. Tra le vendite, quelle dell’aereo Typhoon usato dall’Arabia Saudita in Yemen. Se il gigante BAE seguirà i destini della sua patria e presto – grazie al referendum Brexit – non sarà più citato come industria di uno Stato UE, rimane nell’Unione (almeno per ora) l’italiana Finmeccanica. L’industria di armi nazionale ha chiuso nel 2015 un contratto con la marina militare del Bahrain e dovrà consegnare 28 Eurofighter Typhoons (costruiti insieme a Airbus e BAE System) al Kuwait come parte di un contratto del valore di 9 miliardi di dollari. Inoltre venderà a Qatar il radar Kronos, destinato a monitorare lo spazio (Jennings, 2016).

La spesa militare europea è aumentata dell’1,7% nel 2015 attestandosi sui 328 miliardi di dollari (5,4% in più che ne 2006). La spesa nell’Europa orientale è stata di 74,4 miliardi di dollari, nel 2015 (più 7,5% rispetto al 2014 e più 90% rispetto al 2006). In Europa occidentale invece la spesa militare nel 2015 è stata di 253 miliardi di dollari (meno 0,2% rispetto al 2014 e meno 8,5% rispetto al 2006). Passando al di là dell’Atlantico, la spesa militare di America Latina e Caraibi è scesa del 2,9% nel 2015 (passando a 67 miliardi di dollari, comunque un 33% in più che nel 2006). Il Sud America ha speso 57,6 miliardi di dollari (meno 4% rispetto al 2014, ma più 27% rispetto al 2006) e il Centro America e i Caraibi hanno speso 9,5 miliardi di dollari (più 3,7% rispetto al 2014 e più 84% rispetto al 2006). La riduzione della spesa militare in Sud America è dovuta in gran parte al taglio del 64% nel budget militare del Venezuela. Anche Ecuador e Brasile hanno tagliato le spese militari, dell’11% e del 2,2% rispettivamente. Ma nel 2015 altri Paesi sudamericani hanno aumentato le spese militari: in particolare la Colombia (che pure è impegnata in un processo di pace con la guerriglia delle FARC-EP che sta giungendo a un esito positivo), Guyana, Paraguay, Perú e Uruguay.

Anche il Messico continua a spendere in armi: 7,7 miliardi di dollari ovvero più 3,6% rispetto al 2014 (e 92% in più rispetto al 2006). L’Honduras che vanta il triste primato di essere il secondo Paese per numero di omicidi, ha aumentato la spesa militare del 186% tra il 2006 e il 2015. Da sottolineare che l’Honduras ha anche imposto una tassa per la sicurezza della popolazione nel 2012 per garantire fondi aggiuntivi a esercito, polizia e agenzie di intelligenza (SIPRI, 2016).

 

Le missioni italiane all’estero

 L’Italia è impegnata in 26 missioni all’estero, in 18 Paesi con un totale di 13.050 uomini: seimila in operazioni internazionali e 7.050 in operazioni nazionali. Il 16 maggio 2016 il governo Renzi ha approvato per tutto l’anno un finanziamento di 826 milioni di euro, 58 milioni in più rispetto al 2015. La missione UNIFIL in Libano (sotto il comando italiano) è stata rinnovata con il finanziamento di 155.639.142 euro e la partecipazione di 1.100 uomini. L’Italia partecipa poi con 900 uomini alla coalizione internazionale anti-Daesh e con 950 uomini alla missione Resolute Support in Afghanistan (179.030.323 euro per il 2016). Le missioni europee nel Mediterraneo tengono l’Italia impegnata con 1.530 uomini e il Kosovo con 550. La missione che impegna più denaro è quella in Iraq e Siria contro l’Isis (236.402.196) (Ministero della Difesa, 2016).

 

I costi delle guerre e della violenza

È estremamente difficile calcolare i costi delle guerre. Alcuni dati si possono evincere dal Global Peace Index, redatto annualmente dall’Institute for Economics and Peace (IEP). Nel 2015 l’impatto della violenza sull’economia globale è stato di circa il 13,3% del Prodotto Interno Lordo mondiale.

La spesa militare della NATO (esclusi gli Stati Uniti) è passata da 150 miliardi di dollari nel 1955 a 268 miliardi nel 2015, un aumento del 78%. Nello stesso periodo la spesa militare USA è aumentata del 67%.

L’impatto del terrorismo è peggiorato in 77 Paesi e migliorato in 48. Soltanto in 37 dei 163 Paesi presi in esame il terrorismo non ha avuto alcun impatto nel 2015. Il peggioramento maggiore per quel che riguarda l’indicatore “terrorismo” si è registrato in Medio Oriente e Nord Africa, la cosiddetta regione MENA che si è confermata anche nel 2015 la regione in cui la pace ha subito il maggior deterioramento. L’“instabilità politica” è peggiorata in 39 Paesi, con il Brasile il caso forse più eclatante. Il terrore politico è peggiorato a livello globale e l’Europa ha registrato il maggior aumento in questo indicatore, dopo la regione Asia-Pacifico. Nonostante questo il vecchio continente rimane la regione meno colpita dal terrore politico. Il terrorismo è cresciuto in maniera stabile e consistente nell’ultima decade. Anche se continua a rappresentare una piccola percentuale nelle morti violente, è passato dall’essere responsabile di 10 mila morti nel 2008 a oltre 30 mila nel 2014. Il maggior numero di attività terroristiche, secondo la definizione dell’IEP, si concentra in cinque Paesi: Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. Il 78% delle morti per terrorismo nel 2014 si sono verificate in questi Paesi. È però innegabile che le attività terroristiche si stanno espandendo ad altre zone: 11 Paesi hanno registrato oltre 500 morti per terrorismo nel 2014 mentre erano solo cinque nel 2013 (Institute of Economics and Peace, 2016).

I costi delle guerre in termini di vite umane sono drammatici e altissimi. Migliaia ogni anno, molte anonime e ignorate dai governi stranieri, non a caso responsabili o corresponsabili di tanti di quelle guerre. L’Iraqi Body Count (IBC) continua nel suo difficilissimo e meritorio lavoro di registrare le vittime civili del conflitto voluto da George Bush figlio e dall’ex premier Tony Blair. Dal 20 marzo 2015 al 19 marzo 2016 sono morti 16 mila civili (Hamourtziadou, 2016)

Dall’inizio della guerra, il 20 marzo 2003, sono morti almeno 174 mila civili, mentre le morti violente totali (compresi cioè i combattenti) sono state 242 mila. Ma la guerra non si ferma. Ad aprile 2016 IBC ha registrato 1.050 morti civili, a maggio 1.214, a giugno 1.157 e a luglio 1.369 (Iraqi Body Count, 2016).

La guerra in Siria dal 2011 ad agosto 2016 ha causato la morte di oltre 220 mila persone, secondo le stime più prudenti, il ferimento di centinaia di migliaia e ha lasciato milioni senza casa. Difficile calcolare i costi economici, anche se il presidente Bashar al-Assad ha dichiarato in un’intervista a RIA Novosti che i danni economici e alle infrastrutture del Paese provocati dalla guerra ammontano a 200 miliardi di dollari (al-Assad, 2016).

 

Guerra in appalto: il boom dei contractors

Durante il suo mandato, il presidente americano Barack Obama ha autorizzato la continuazione di due delle guerre che maggiormente dipendono dai contractors, quella in Afghanistan e quella in Iraq.

In Afghanistan ci sono più o meno tre contractors (28.626) per ogni militare USA (9.800). In Iraq oggi ci sono 7.773 contractors in appoggio alle operazioni militari USA, ma 4.087 militari. Si tratta di numeri che non comprendono contractors che lavorano con la CIA o altre agenzie. In aprile del 2016 il comandante del Comando Cyber USA, Michael Rogers, ha dichiarato in una audizione al Senato che i contractors costituiscono il 25% della sua forza lavoro. Durante la presidenza di Obama sono morti più contractors che truppe regolari, tanto in Afghanistan quanto in Iraq: in totale, dal 1° gennaio 2009 al 31 marzo 2016 sono morti 1.540 contractors (176 in Iraq e 1.364 in Afghanistan). Nello stesso periodo sono morti 1.301 soldati (289 in Iraq e 1.012 in Afghanistan) (Zenko, 2016).



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