Oltre cento morti in dieci giorni in Pakistan

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Il bilancio dell’ultimo attacco terroristico in Pakistan è ancora incerto: cinque le vittime secondo alcune fonti, sette secondo altre. Quel che è certo è che i tre attentatori della Jamaat-ul-Ahraar (JuA) – fazione che si è scissa nel 2014 dal fronte dei talebani pachistani del Tehreek-e-Taleban (Ttp) – volevano compiere una strage e ci sono riusciti solo in parte.

L’OBIETTIVO, come già in passato, è un tribunale di Charsadda, una cittadina capoluogo di distretto a una trentina di chilometri da Peshawar, capitale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa, e vicina al confine con l’Afghanistan. Secondo le prime ricostruzioni, i tre attentatori si sono avvicinati come normali cittadini al tribunale ma appena il primo militante è stato fermato dagli agenti, ha lanciato una granata. È stato ucciso subito dopo. Stessa fine per il secondo, freddato sull’ingresso mentre il terzo è riuscito a farsi esplodere. In totale i kamikaze hanno potuto comunque lanciare sei granate ma senza riuscire però a mettere a segno la strage che dovevano avere in animo se fossero entrati nella corte di giustizia, affollata di avvocati e civili.

CHARSADDA NON È NUOVA ad attacchi terroristici: un’altra corte di giustizia era entrata nel mirino nel marzo scorso quando un suicida – sempre di Jamaat-ul-Ahraar – era riuscito a farsi esplodere dentro il tribunale. Nel gennaio 2016 invece, l’Università Bacha Khan di Charsadda era stata l’obiettivo dell’attacco di un commando che aveva gettato nel panico i duecento studenti dell’ateneo dedicato a una nobile figura del pacifismo pashtun (Bacha Khan, appunto, noto anche come «Il Gandhi della Frontiera»). Allora i morti furono 22 e l’attacco venne rivendicato dalla Tariq Geedar Afridi, fazione del Ttp, il cui vertice aveva però poi smentito di aver dato luce verde alla strage.

Charsadda è uno dei tanti luoghi simbolo di un Paese con una storia complessa e antica alle spalle: non solo Charsadda ha dedicato una scuola a un pacifista che usava il Corano come strumento di pace ma è anche il luogo che ospita le rovine dell’antico sito di Pushkalavati – la Città del loto – capitale del regno del Gandhara dal sesto secolo a.C. al secondo d.C.. Secondo il Ramayana, testo sacro hindu, il nome deriva dal fondatore Pushkala, figlio di Bharat e nipote di Rama. Fu una città zoroastriana, animista e in seguito buddista. È una delle culle – con l’Afghanistan – della civiltà greco-buddista e cioè dell’antichissimo legame tra Oriente e Occidente. Ha dunque tutti i requisiti per essere in odio all’islamismo più radicale che, per non farsi mancare nulla, ha aggiunto la supposta apostasia di Bacha Khan, un uomo che forse solo i soldati britannici avevano odiato di più (era contrario tra l’altro alla spartizione del Raj tra India e Pakistan).

TUTTO FAREBBE PENSARE a un’azione dello Stato islamico cui la JuA (Assemblea della fede) aveva inizialmente garantito il suo sostegno nell’agosto del 2014 salvo poi nel marzo 2015 – ma è difficile seguire le geometrie variabili della galassia jihadista – tornare sotto il cappello del Ttp.

È INVECE DA IMPUTARSI allo Stato islamico – che l’ha rivendicata – la strage di giovedi scorso al tempio sufi di Lal Shahbaz Qalander, a Sehwan, nel Sindh, con un bilancio che potrebbe arrivare a contare 90 morti e che ha fatto reagire con veemenza gli alti comandi dell’esercito, ora sotto la guida del generale Qamar Javed Bajwa che, tanto per cambiare, ha accusato l’Afghanistan di essere il retrovia per le operazioni del Califfo. La reazione si è risolta anche nella chiusura della frontiera afghano-pakistana con l’ordine di «sparare a vista» e in un momento di altissima tensione tra i due Paesi, dal momento che Islamabad sta espellendo un milione di afghani «indocumentati» (ma in molti casi con lo status di rifugiati) e ne ha già mandati in Afghanistan 600mila.

QUANTO AL QUADRO INTERNO, la cronaca racconta di oltre cento morti nel solo giro di dieci giorni: il 13 febbraio un kamikaze del Ttp uccide a Lahore 13 persone. Lo stesso giorno due sminatori vengono uccisi a Quetta. Il 15 JuA firma un attentato kamikaze nell’agenzia tribale di Mohmand uccidendo cinque persone mentre a Peshawar il Ttp cerca di uccidere un giudice ma fredda il suo autista. Il 16 febbraio, govedi, è la volta del tempio sufi di Lal Shahbaz Qalandar, mentre un Ied (bomba sporca) uccide nel Belucistan tre agenti della sicurezza. Ieri Charsadda.

Vale la pena di notare, al di là dei numeri, che la violenza politica (non sempre e solo attribuibile ai talebani e ai loro sodali più o meno alleati) si è ormai espansa a macchia d’olio in tutto il Paese e che la promessa del pugno di ferro con i gruppi islamisti – a lungo coccolati da governi e servizi – è tardiva. Dopo una macabra luna di miele forse definitivamente tramontata.

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