Crescita? Una ripresa senza lavoro

Crescita? Una ripresa senza lavoro

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ROMA. Forse anche in Italia è davvero svanito, una volta per tutte, l’incubo degli scatoloni della Lehman Brothers. Forse. La nostra economia rialza la testa a dieci anni esatti dall’inizio della recessione globale e a nove dalle immagini simbolo degli impiegati della banca d’affari americana, che dopo il fallimento lasciano gli uffici di New York portando via gli oggetti personali nelle scatole di cartone. Era l’ingresso del mondo nella lunga galleria della più estesa crisi economico-finanziaria della storia (a parte la Grande Depressione del ’29), un tunnel dal quale anche il nostro Paese ora sembra finalmente fuori. Tra gli ultimi vagoni del convoglio, ma comunque fuori. Lo dicono i numeri sulla crescita del Pil diffusi ieri dall’Istat, così incoraggianti da convincere il segretario del Pd (ed ex premier) Matteo Renzi a rispolverare invettive ornitologiche («Tempo è galantuomo, realtà smentisce i gufi») e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a snocciolare i meriti del governo (o, meglio, dei governi considerando il passaggio di consegne tra Renzi e Gentiloni). Tira l’industria (in particolare quella che esporta),tirano i servizi, tira il turismo, perde colpi soltanto l’agricoltura ma per colpa della siccità. Dal lato della domanda, spinge soprattutto la componente nazionale: le famiglie, anche se timidamente, ricominciano a consumare.

Eppure, proprio leggendo in filigrana le parole di Padoan e analizzando i numeri, c’è di che ridimensionare i trionfalismi che stanno riempendo il vuoto pneumatico di agosto. Partiamo dalle cifre. È innegabile, come sottolinea il ministro, che quel +0,4% congiunturale e quel +1,5% tendenziale rappresentano «il tasso di crescita economica più sostenuto dall’inizio della crisi». Un’accelerazione legittimata anche da altri indicatori, come gli ultimi dati mensili sulla produzione industriale (+5,3% annuo a giugno) o sui prezzi al consumo all’1,2% a luglio e, dunque, sempre più lontani dal rischio deflazione. Ma è altrettanto evidente la distanza che ci separa dagli altri Paesi europei, in particolare da quelli dell’area euro che viaggiano ormai ad un ritmo del Pil del 2,2% . Un ritardo che, secondo lo chief economist di Nomisma, Andrea Goldstein, «si amplia inesorabilmente ogni trimestre. Prima o poi – aggiunge – il presidente della Bce, Mario Draghi, dovrà cominciare a stringere i cordoni della borsa e a quel punto l’Italia rimarrà l’unico Paese del G20 con un Pil inferiore al livello pre-crisi». La preoccupazione è, dunque, che la ripresa italiana sia ancora insufficiente a rilanciare gli investimenti e, soprattutto, a creare occupazione. Insomma, la “crescita senza lavoro” che è rappresentata plasticamente sempre nei dati dell’Istat, perché se è vero che il tasso di disoccupazione registrato a giugno (11,1%) è il più basso degli ultimi cinque anni, resta però superiore ai livelli europei (9,1% la media dell’eurozona, con la Germania al 3,8% e la Francia al 9,6%). Per non parlare del tasso di disoccupazione giovanile che nel nostro Paese sfonda abbondantemente quota 35%. Non è un caso, dunque, se tra le righe del commento di Padoan spunta come nota dolente (unitamente alle lacune sul fronte degli investimenti pubblici) proprio la questione dei giovani: «Per loro non si è fatto abbastanza. La crescita economica diffusa comincerà a produrre benefici anche per i giovani, favorendone l’ingresso in un mercato del lavoro reso più dinamico e propenso alle assunzioni, ma misure specifiche per favorire l’inizio di un percorso lavorativo dovrebbero accelerare questo recupero». Concetto ribadito dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda.

Di misure che vanno in questa direzione si è in effetti già cominciato a ragionare, in particolare con l’ipotesi di una decontribuzione totale per le assunzioni degli under trentacinque. Ma quando in autunno a via Venti Settembre e a Palazzo Chigi si discuterà concretamente di manovra, sarà già iniziata (quando mai si fosse fermata) la lunga rincorsa della campagna elettorale. Stagione difficilmente compatibile con le riforme strutturali.

Fonte: MARCO PATUCCHI, LA REPUBBLICA



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