Migranti: la Ue ringrazia l’Italia, ma non ci sente sulla revisione di Dublino e Schengen

Migranti: la Ue ringrazia l’Italia, ma non ci sente sulla revisione di Dublino e Schengen

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«Il peggio è passato» dice Jean Claude Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione e l’ottimismo del presidente della Commissione europea sembra estendersi oltre l’economia arrivando a toccare anche l’immigrazione, uno dei temi che negli ultimi anni ha maggiormente tenuto banco a Bruxelles. In effetti rispetto anche solo a nove mesi fa la situazione è cambiata. La politica messa in atto dall’Italia in Libia – e prontamente condivisa dall’Unione – ha portato a una forte riduzione dei flussi in arrivo dal Paese nordafricano e sta lentamente spostando sempre più a sud i confini europei, puntando a bloccare i migranti prima ancora che entrino in Libia. Scelte che Juncker dimostra di apprezzare, tanto da riservare al governo del premier Gentiloni un tributo particolare riconoscendo come «nel Mediterraneo centrale l’Italia ha salvato l’onore dell’Europa». Certo, resta il problema dei centri di detenzione libici in cui i migranti vengono rinchiusi e che Juncker definisce «inumani», ma promette di lavorare per migliorarli e di aprire vie legali per arrivare in Europa. Prioritari restano comunque i rimpatri dei migranti irregolari perché, spiega Juncker condividendo un concetto caro al presidente francese, «solo così l’Europa potrà dare prova di solidarietà verso i profughi che hanno veramente bisogno».

Complimenti che gratificano Paolo Gentiloni, che infatti si affretta a ringraziare via Twitter il presidente della commissione Ue, ma che rischiano di restare l’unica prova di solidarietà nei confronti dell’Italia. Se infatti dall’impegno in Africa si guarda a quanto succede a casa nostra, i cambiamenti che si preparano potrebbero non piacere a palazzo Chigi. A partire dall’ostinazione con cui i Paesi dell’Est continuano a opporsi ai ricollocamenti per finire con le riforme di Dublino e Schengen in preparazione a Bruxelles.

La prima partita a essere giocata sarà quella con i duri del blocco di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia). Nonostante il 6 settembre la Corte di giustizia europea gli abbia dato torto, il premier ungherese Viktor Orbán continua a rifiutarsi di accogliere profughi dall’Italia e dalla Grecia, forte anche di un sondaggio secondo il quale il 75% dei cittadini dell’Europa centrale e l’80% di quelli dell’Europa orientale sarebbero contrari alla politica delle quote decisa due anni fa da Bruxelles. Juncker lo incontrerà il 28 settembre in Estonia in occasione del Tallinn Digital Summit e proverà a fargli cambiare idea, ma lo scontro vero è rimandato al Consiglio europeo di ottobre dove Angela Merkel è decisa a dare battaglia. La cancelliera tedesca ha definito «inaccettabile» la decisione ungherese di non rispettare la sentenza della Corte del Lussemburgo e minaccia ritorsioni in sede di discussione del prossimo bilancio europeo (l’Ungheria beneficia di 34,3 miliardi di euro dai fondi europei per il periodo 2014-2020).

In ballo c’è poi la riforma del regolamento di Dublino che l’Italia chiede di modificare nella parte che assegna al Paese di primo ingresso la responsabilità dei richiedenti asilo. La bozza presentata dalla Commissione europea a maggio del 2016 ignora però l’istanza italiana, limitandosi a introdurre un sistema di ripartizione delle domande di asilo che scatta solo quando uno Stato si trova sotto pressione a causa dell’alto numero di arrivi. Perché però il meccanismo si attivi le richieste di asilo devono superare del 150% la quota di riferimento fissata in precedenza per ogni Stato membro sulla base della sua popolazione e del Pil. Di fatto una non soluzione che continuerebbe a penalizzare Paesi come l’Italia e la Grecia. Non a caso ieri Gianni Pittella, presidente del gruppo S&D all’europarlamento, ha ribadito che il gruppo socialista «non voterà nessuna revisione di Dublino senza l’eliminazione della regola aberrante del Paese di primo sbarco».

Manovre in corso, infine, anche per modificare il trattato di Schengen. A spingere in questo caso sono soprattutto Germania e Francia (ma d’accordo sarebbero anche Austria, Danimarca e Norvegia) che puntano a semplificare le procedure per ripristinare i controlli alle frontiere interne e ad innalzare dagli attuali sei mesi fino a due anni, da poter estendere fino a quattro per i casi «eccezionali», il periodo massimo cui è possibile sospendere Schengen. La motivazione ufficiale riguarda i pericoli legati a possibili attentati terroristici, ma dietro l’insistenza di Berlino e Parigi si intravede la volontà di ostacolare nuovi ingressi da parte di migranti.

FONTE: Carlo Lania, IL MANIFESTO



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