Salute e Sicurezza sul Lavoro

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Salute e Sicurezza sul Lavoro

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LA DOLOSA NORMALITÀ DEL LAVORO NOCIVO E RISCHIOSO

La catena del rischio e il vortice del danno
La salute e la sicurezza sul lavoro stanno diventando sempre più regioni buie dei sistemi sociali, civili e politici, completamente rimosse dallo spazio della discussione pubblica e largamente violate sul piano dei diritti. La crisi dei meccanismi di protezione sociale ha precipitato i lavoratori in una situazione in cui la normalità è data dalla condizione di insicurezza e precarietà. Nel mondo, il numero degli infortuni sul lavoro rimane impressionante e ancora più scioccante è l’inarrestabile aumento delle malattie professionali. La salute e la sicurezza sul lavoro, in Italia e nel mondo, sono diventate un pianeta oscurato dall’indifferenza e dalla distrazione.

Metabolismi simbolici e costrizioni materiali hanno trasformato il morire e l’ammalarsi sul lavoro in una insignificante normalità, a sua volta, assimilata a una non estirpabile fatalità. La fuga dalle responsabilità celebra il trionfo dell’irresponsabilità dei decisori e della precarietà dei lavoratori. Un sentimento, questo, che si diffonde dall’alto delle istituzioni e passa attraverso le leve di comando politico, economico e sociale e acquisisce il significato di una dichiarazione di legittimità della ragione pratica e teorica delle morti e degli infortuni sul lavoro. Il lavoro viene qui trasformato in una malattia del vivere che cancella la dignità. È così che il dolore e il male del vivere sono diventati mondi invisibili. Ed è questa invisibilità che accoglie e nasconde gli infortuni, le morti e le malattie professionali, celebrando il supplizio del lavoro, dei lavoratori e dei cittadini.

Il malessere si trasferisce dalla vita al lavoro e viceversa in un tourbillon inarrestabile, i cui effetti sono sempre più dilaceranti e destrutturanti. Il malessere è diventato la soglia standard degli ambienti di lavoro e di vita. Il benessere, da chimera più o meno irraggiungibile, si è trasformato in assenza assoluta, di cui deve essere perduta la consapevolezza. I rischi sul lavoro non vengono valutati con attenzione e i danni vengono sottovalutati o rimossi. La natura multifattoriale dei rischi, degli infortuni e delle malattie professionali è ignorata, a causa di approcci retrodatati e semplificatori; o, peggio, cancellata dalle strategie di prevenzione e intervento sulla sicurezza. Non può meravigliare che, in queste condizioni, il lavoro uccida e la vita sociale emargini e renda infelici.

Quanto più peggiora il clima organizzativo, tanto più sono pregiudicate le performance. Ma questa evidenza difficilmente è ammessa dagli approcci aziendalisti ed economicisti all’organizzazione e alla sicurezza sul lavoro oggi imperanti. Per limitarsi alle sole malattie professionali, è ingente la perdita economica in termini di produttività e di squilibri organizzativi causata dal loro proliferare ininterrotto.

Un’organizzazione a bassa soglia di benessere è necessariamente una organizzazione con bassi standard produttivi. Ma non è tutto. Sistemi relazionali interni altamente deficitari ne minano l’integrità, elevando, al contrario, il rischio potenziale e il danno reale. In un clima di questo genere, vengono progressivamente meno le motivazioni, in una catena perversa che gira all’infinito su se stessa. Quanto più un’organizzazione è incapace di motivare, tanto più espone e si espone al rischio e produce danni, dal sistema della sicurezza sul lavoro al complesso delle relazioni sociali che intrattiene e dentro cui è coinvolta. I risultati li abbiamo tutti sotto gli occhi, anche per effetto dei fattori di aggregazione negativa moltiplicati e accelerati della crisi globale principiata nel 2008 e che, purtroppo, sembra ben lontana dall’avviarsi a conclusione.

Il paradigma catastrofico dell’ILVA di Taranto
Un caso paradigmatico, elevato a emblema caratterizzante del legame multidimensionale tra benessere organizzativo e benessere sociale, è quello dell’ILVA di Taranto, descritto ampiamente nel capitolo che segue. Tre elementi devastanti distinguono il caso: a) catastrofe della salute e sicurezza sul lavoro; b) catastrofe ambientale; c) catastrofe umanitaria. Il malessere dell’organizzazione del lavoro qui si salda perfettamente col malessere sociale e umano. L’emblema catastrofico di questa saldatura è dato da tassi di mortalità, di malattie professionali e di inquinamento ambientale attestati da decenni su livelli estremamente elevati. Il fatto drammatico è che su queste evidenze storiche non è stato mai aperto e condotto un consequenziale dibattito pubblico. Ancora più drammatico è il fatto che istituzioni pubbliche abbiano coperto o, addirittura, assecondato questo stato di cose con politiche ambientali e strategie sulla salute e sicurezza sul lavoro assolutamente deficitarie.

Eppure ricerche empiriche e specialistiche, in ambito internazionale e nazionale, avevano testimoniato, già dal finire degli anni Ottanta, le condizioni devastanti in cui viveva la città. Eppure indagini coordinate dallo stesso Istituto Superiore di Sanità avevano raccolto dati inoppugnabili sul nesso di causalità sussistente tra le emissioni del centro siderurgico dell’ILVA e il disastro umanitario e ambientale in cui da anni era stata gettata la città. Ha prevalso sempre una logica che ha anteposto gli interessi dell’azienda ai diritti dei lavoratori e dei cittadini che ha avuto il suo corollario perfetto nella “legge salva ILVA”. Peraltro, si è trattato di una logica miope, oltre che non condivisibile sul piano etico-politico, in quanto ha causato l’inarrestabile declino industriale, ambientale e civile della città.

A questo terminale crollano le retoriche e le mitologie che hanno narrato e rappresentato l’insediamento industriale come volano del progresso sociale e della modernizzazione del Sud. Qui e altrove, purtroppo, sono state proprio logiche industrialiste di corto raggio a svolgere un ruolo di arretramento storico, civile e sociale. Ma è, questo, un discorso su Sud e meridionalismo che non trova campo di discussione nello spazio pubblico e che, evidentemente, non mette conto qui svolgere. Rimane solo l’amaro in bocca di fronte alla sofferenza di migliaia di persone a cui è stato rubato il passato e il presente e per le quali il futuro si è trasformato in una nebulosa vaga, oltre che inquinata. L’inquinamento della prospettiva storica, è forse, la catastrofe peggiore che si sta consumando a Taranto.

Le malattie professionali: nemico invisibile e conseguenze tragiche
Da sempre, le malattie professionali sono un nemico insidioso, per tutta una serie di motivi, i principali dei quali sembrano i seguenti: a) molte di esse hanno periodi di incubazione assai prolungati nel tempo; a) le indagini epidemiologiche sono assai lente e non sempre bene indirizzate; c) i Documenti di Valutazione del Rischio (DVR) sovente ne sottovalutano il ruolo e il peso; d) le strategie istituzionali e imprenditoriali di prevenzione, formazione e comunicazione sono assai carenti sul punto. La concomitanza di questi motivi, unita alla messa in opera di condizioni di lavoro sempre meno sane e sicure e destabilizzanti dell’equilibrio psico-fisico dei lavoratori, è alla base della loro crescita in tutto il mondo. Anche nei Paesi in cui gli infortuni sul lavoro conoscono un decalaggio, le malattie professionali continuano a crescere.

I numeri della strage mondiale
Gli ultimi dati forniti dall’ILO, in occasione della Giornata mondiale della sicurezza e salute sul lavoro (28 aprile 2013), sono estremamente preoccupanti. Le malattie professionali continuano a essere la principale causa di morte sul lavoro: ogni anno si registrano 2.020.000 morti per malattie professionali contro 321 mila per infortuni. Il che significa che, nel mondo, ogni giorno si registra una media di più 5.500 morti per malattie professionali.

Secondo una ricerca dell’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro del 2012, la percezione e la preoccupazione dei lavoratori rispetto alle malattie professionali sono in costante aumento. Le preoccupazioni maggiori sono per i disturbi muscolo-scheletrici, lo stress, le sostanze pericolose, il rumore e le vibrazioni. Un’indagine di Eurofound del 2012, condotta nell’UE a 27, ha fatto emergere che le patologie da lavoro che suscitano le più grandi apprensioni dei lavoratori sono disturbi muscolo-scheletrici, stress, depressione e ansia, malattie cardiache o infarti, problemi al sistema circolatorio, mal di testa, disturbi alla vista, malattie infettive.

In Italia, secondo l’INAIL, nel 2011 le denunce di nuove malattie professionali sono state 46 mila, con un aumento del 10% rispetto al 2010 e del 60% rispetto all’ultimo quinquennio. Rispetto al 2010, l’aumento più consistente è stato fatto registrare dalle placche pleuriche. L’agricoltura è stata, invece, il comparto che ha fatto registrare l’aumento più massiccio delle denunce di nuove malattie professionali: 7.971 del 2011 contro 1.650 del 2007.

Ancora più emblematici i dati relativi alle donne. Nel quinquennio 2007-2011, il numero delle nuove malattie professionali denunciate è passato da 7.208 (2007) a 14.099 (2011), con una variazione del 95,6%. Se consideriamo, invece, l’ultimo biennio (2010-2011), il numero delle nuove malattie professionali è passato da 12.682 (2010) a 14.099 (2011), con una variazione dell’11,2%.

Nello stesso quinquennio, per gli uomini l’evoluzione è stata diversa. Il numero delle nuove malattie professionali denunciate è passato da 21.735 (2007) a 32.590 (2011), con una variazione del 49,9%. Se consideriamo, invece, l’ultimo biennio (2010-2011), il numero delle nuove malattie professionali è passato da 29.809 (2010) a 32.590 (2011), con una variazione del 9,3%.

Come si vede, l’incidenza delle malattie professionali è assai più elevata per le donne, pur essendo presenti in numero largamente inferiore nel mercato occupazionale.

Complessivamente, questi scarni dati, peraltro largamente approssimati per difetto, danno ampiamente la misura dell’enormità del fenomeno e della sua sottovalutazione.

Le discusse statistiche dell’INAIL
I dati annuali forniti dall’INAIL da tempo hanno suscitato più di una perplessità, in fatto di attendibilità e scientificità. Stavolta, però, non sono stati soltanto la FILLEA-CGIL e l’Osservatorio indipendente di Bologna a sollevare obiezioni di merito e di metodo. Nel 2013, anche quotidiani autorevoli come “la Repubblica” e settimanali come “l’Espresso” hanno pubblicato articoli e inchieste contenenti dubbi sulle statistiche ufficiali.

Nel Rapporto annuale del 2012 (presentato il 7 luglio), l’Istituto forniva i seguenti dati riferiti al 2011: a) gli infortuni sono stati 725 mila contro i 776 mila del 2010, con un decremento del 6,6%; b) le morti sul lavoro sono state 920 contro delle 973 del 2010, con un decremento del 5,4%. L’Istituto, però, ammetteva che parte del calo era determinato dalla contrazione produttiva e occupazionale determinata dalla crisi in corso.

Il 31 ottobre 2012, ha aggiornato i dati relativi al 2011 che non si discostavano molto da quelli forniti dal Rapporto annuale: a) infortuni denunciati 725.339, contro i 776 mila del 2010; b) infortuni mortali denunciati 886, contro i 973 del 2010.

Il 27 febbraio 2013, il direttore generale dell’INAIL Giuseppe Lucibello, ha anticipato a una trasmissione radiofonica i dati relativi a dicembre 2012 che sono apparsi ancora più contenuti di quelli del 2011: a) sono risultate 654 mila denunce di infortuni e 820 casi di infortuni mortali, con una flessione rispetto al 2012 rispettivamente del 9% e del 3%. Anche il direttore dell’INAIL ha parzialmente ricondotto la flessione del numero dei casi alla crisi in corso; ma ha tenuto a precisare che il ruolo principale è stato giocato dalle politiche di riduzione del rischio da anni in atto in Italia.

Che le cose non stiano in questi termini, purtroppo, è agevole dimostrarlo.

La rilevazione dei dati fatta dall’INAIL, a prescindere dal ruolo esorbitante giocato dal mercato del lavoro sommerso e informale, non ha il carattere dell’universalità, poiché esclude le categorie che non hanno la copertura assicurativa dell’Istituto: pensionati, polizia e forze dell’ordine, agenti di commercio, autisti, lavoratori deceduti in strada e autostrada. Questa è la contestazione di metodo e di merito principale che all’INAIL ha sempre mosso l’Osservatorio indipendente. Contrariamente ai dati forniti dall’INAIL, l’Osservatorio di Bologna ha rilevato che sono stati come minimo 1.180 gli infortuni mortali nel 2012.

Anche la FILLEA-CGIL, per bocca del suo segretario generale Walter Schiavella, ha contestato i dati statistici dall’INAIL, non esitando a definirli virtuali, poggiando la sua confutazione sulla valutazione di merito dei numeri forniti dall’Istituto nel settore dell’edilizia. Incrociando i dati INAIL con quelli relativi al numero degli iscritti alle Casse Edili e, quindi, tenendo conto della reale platea degli addetti e delle ore lavorate, la FILLEA è pervenuta a risultati opposti: gli infortuni non hanno subito un calo, ma una crescita quasi del 6%; le morti sul lavoro, a loro volta, ben lungi dal flettere, si sono impennate con un balzo del 47,19%.

Il carattere virtuale dei dati INAIL rappresenta il sigillo di una sorta di chiusura del cerchio. Rendendo invisibili infortuni e morti sul lavoro, si cancella dall’agenda della discussione pubblica la questione della salute e sicurezza sul lavoro. Trionfa il fatalismo tendenzioso che assume il rischio e il danno sul lavoro come un prodotto naturale e inestirpabile, dei cui esiti umani e sociali devastanti porterebbero la responsabilità i lavoratori, con i loro comportamenti inadeguati; giammai le scelte e le decisioni omissive delle istituzioni e dei datori di lavoro.

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