Al via il Centenario della CGIL

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La Costituzione del lavoro

di Giuseppe Casadio
(Presidente Associazione Centenario)

La prima tappa della celebrazione del centenario della Cgil sarà, l’11 e il 12 novembre, una riflessione sull’apporto del sindacato alla democrazia, alla Carta costituzionale, allo sviluppo dell’Italia. “Diritti sociali e del lavoro nella Costituzione italiana”, è infatti il titolo del convegno di studi che abbiamo organizzato a Roma, con la partecipazione di studiosi, politici, sindacalisti. Ragioni forti, tutt’altro che simboliche, ci hanno spinto a partire dalla Costituzione nel percorso che ci porterà, fra un anno, a ricordare solennemente i cento anni dalla nascita della Confederazione generale del lavoro.
Innanzitutto la Costituzione della Repubblica; perché su di essa è fondata la nostra convivenza civile, per i valori che la ispirano, per i travagli a cui è oggi sottoposta.
Molti articoli della Costituzione trattano direttamente le tematiche del lavoro, o delle condizioni di lavoro, sancendo diritti individuali e collettivi, indicando obiettivi da realizzare, condizioni da determinare (art. 1, 3, 4, dal 35 al 40, 46, 99) e molti altri le protezioni sociali da garantire o da affermare.
È stato detto e scritto che si configura in ciò una “peculiarità” della Costituzione italiana rispetto a molte altre costituzioni democratiche; si è parlato di “costituzione del lavoro”. Una peculiarità consapevolmente determinata dai costituenti. Non si può certo pensare che le formulazioni adottate dall’Assemblea costituente siano il frutto inconsapevole di puri artifizi retorici. Dunque: i diritti sociali e del lavoro hanno radici forti e profonde nella Costituzione italiana, a partire dai primi 12 articoli, in cui si enunciano i “princìpi fondamentali” e concorrono, al pari dei diritti civili e dei diritti politici, a erigere i muri maestri dell’edificio democratico.
Pensando all’Italia del ‘48 si deve concludere che indubbiamente ve ne erano molte ragioni: il lavoro organizzato nel sindacato confederale nazionale era stato costruttore primario dell’unità nazionale già nello Stato liberale; emblematicamente fu nelle aggressioni alle sue sedi e ai suoi simboli che si svelò il volto repressivo e violento del regime insorgente, nei primi anni 20; negli anni quaranta fu ancora il lavoro a rendere palese e irreversibile la crisi del regime con gli scioperi del ‘43 e ‘44, mentre tutti gli altri soggetti organizzati erano inerti o annichiliti; e ancora, dopo la liberazione, quando si propose il grande tema della ricostruzione democratica, civile ed economica, i militanti e le strutture territoriali della confederazione furono, per un tempo non breve, l’unica rete reale che garantiva visione nazionale e coesione sociale. Come avrebbero potuto i costituenti prescindere da tutto ciò, nel momento di fondare la democrazia repubblicana?
Ma anche confrontandoci con il presente, e in prospettiva futura, emergono evidenti a noi le ragioni per riconoscere nel lavoro il principale titolo di dignità del cittadino e quindi il ruolo di contraente fondamentale del patto costituzionale.
Cambiano le forme del lavoro eppure oggi, non meno di ieri, chi si vede negata la possibilità di svolgere un ruolo attivo nel sistema delle relazioni economiche, o è costretto a svolgerlo in condizione di ricatto, di sotto-tutela, deprivato dei diritti e delle garanzie previste dall’ordinamento, per ciò stesso è sospinto verso la marginalità sociale, vive e soffre una condizione di esclusione. Non è pienamente cittadino.

Sulla base di queste riflessioni, tre considerazioni problematiche che ci riportano all’attualità:
1. la valorizzazione delle autonomie, istituzionali e sociali, che concorrono a comporre la Repubblica, serve a esaltarne il carattere democratico, a condizione che le armature fondamentali dello Stato ne risultino rafforzate in termini di unitarietà e coesione.
Ebbene: il progetto di revisione costituzionale in corso di discussione in Parlamento infrange questo limite. La “devoluzione”, la cancellazione del concetto stesso di “legislazione concorrente” prefigurano una grave frammentazione istituzionale e una progressiva rottura della coesione sociale, attraverso la diversificazione del sistema dei diritti e delle tutele sociali e del lavoro. Per una Costituzione in cui i diritti sociali e del lavoro hanno il valore fondativo che hanno nella nostra Costituzione, questo già basta a stravolgerne l’impianto, a mutilarne le fondamenta.
2. Fra i caratteri distintivi della nostra Costituzione – formale e materiale – vi è l’ispirazione fortemente partecipativa.
La nostra è una repubblica parlamentare, in cui è rilevante il ruolo degli organi di garanzia – a partire dalle prerogative della presidenza della Repubblica –; in tale architettura spicca il requisito di autonomia e indipendenza della magistratura; a ciò contribuisce fortemente il ruolo dei corpi intermedi della rappresentanza sociale. Anche questo è un valore fondante, un connotato ontologico della nostra Costituzione. E invece, ancora nel progetto di revisione costituzionale in discussione, prevale una semplificazione eccessiva, una concentrazione smodata del potere in mano agli esecutivi, una malcelata insofferenza all’esercizio delle funzioni di garanzia. Noi siamo contrari a questa deriva; il sindacato confederale, non corporativo, non può rassegnarsi a immaginare per sé un ruolo meramente lobbistico, perché questa sarebbe la conseguenza, fra le altre.
Innanzitutto in ragione di queste considerazioni la Cgil e tutto il sindacato confederale hanno chiaramente espresso una dura critica al progetto di revisione costituzionale all’esame del Parlamento. Tutto il sindacato confederale ha aderito al coordinamento “Salviamo la Costituzione-Aggiornarla non demolirla” presieduto dal presidente Scalfaro; e la Cgil in particolare ha già dichiarato, e ribadisce, il suo impegno nella campagna referendaria che farà seguito all’eventuale approvazione da parte del Parlamento.
3. La terza questione si proietta in un ambito più ampio, e in prospettiva futura.
Come possono configurarsi i princìpi e i valori a cui ci stiamo richiamando nell’orizzonte di una progressiva, e peraltro auspicabile, “costituzionalizzazione” della identità europea?
A suo tempo valutammo positivamente la “Carta di Nizza” perché in quell’atto si riproduceva una sintesi significativa fra diritti civili, diritti politici e diritti sociali; con una buona corrispondenza a quella “peculiarità” della Costituzione italiana di cui ho parlato in precedenza. Ma è proprio questa triade concettuale che si è spezzata – a danno dei diritti sociali – nel passaggio al testo del Trattato. Occorre essere consapevoli che ce ne possono derivare difficoltà ulteriori; anzi: il problema è già posto in varie forme. Ciò non fa recedere la nostra vocazione europeista; tuttavia nell’Europa a cui pensiamo vorremmo poter riconoscere i connotati che ci sono più consoni perché iscritti nei caratteri della nostra esperienza di libertà e di democrazia.

Dunque aggiornare la Costituzione si può; se la democrazia vuole restare viva, il percorso non può essere precluso in via di principio. Ma proprio per questo ogni modifica eventuale richiede il massimo di consapevolezza e di “armonia” fra ciò che si conferma e ciò che si innova, nel rispetto più totale dei princìpi fondamentali e ascoltando la voce di tutti i contraenti del Patto, anche di quelli esclusi dalla baita di Lorenzago. Così noi intendiamo i reiterati richiami del presidente Ciampi alla nostra “bella” Costituzione; li leggiamo come un giudizio profondamente politico, non estetico. E lo condividiamo.

(www.rassegna.it, Rassegna sindacale, n. 41, novembre 2005)

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